sabato 26 gennaio 2008

CANTO



Passata è la tempesta; odo augelli far festa e la gallina tornata in su la via, che ripete il suo verso.
Ecco il sereno rompe là da ponente, alla montagna; sgombrasi la campagna, e chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato risorge il mormorio torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo, con l'opra in man, cantando, fassi in su l'uscio; a prova vien fuor la femminetta a còr dell'acqua della novella piova; e l'erbaiuol rinnova di sentiero in sentiero il grido giornaliero.
Ecco il sol che ritorna, ecco sorride per li poggi e le ville.
Apre i balconi, apre terrazzi e logge la famiglia: e, dalla via corrente, odi lontano tintinnio di sonagli; il carro stride del passegger che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita quand'è, com'or, la vita? Quando con tanto amore l'uomo a' suoi studi intende? O torna all'opre? O cosa nova imprende? Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno; gioia vana, ch'è frutto del passato timore, onde si scosse e paventò la morte chi la vita abborria; onde in lungo tormento, fredde, tacite, smorte, sudàr le genti e palpitàr, vedendo mossi alle nostre offese folgori, nembi e vento.
O natura cortese, son questi i doni tuoi, questi i diletti sono che tu porgi ai mortali. Uscir di pena è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto che per mostro e miracolo talvolta nasce d'affanno, è gran guadagno.
Umana prole cara agli eterni! Assai felice se respirar ti lice d'alcun dolor: beata se te d'ogni dolor morte risana.


giovedì 24 gennaio 2008

Nietzsche e Leopardi

Pietro ha perfettamente ragione. Nietzsche, Leopardi, Dostoevskij (da Nietzsche molto amato) sono tra i massimi psicologi che la cultura europea abbia generato. Il primo scrive di se stesso parole come queste: «che nei miei scritti parli uno psicologo senza pari, questa è forse la prima conclusione a cui arriva un buon lettore –un lettore come lo merito, che mi legga come i buoni filologi di una volta leggevano il loro Orazio» (Ecce homo, in «Opere», Adelphi, vol. VI, tomo 3, pag. 314).

Leopardi costituisce una delle fonti più profonde e costanti dell’itinerario di Nietzsche, sia nella condivisione di molti contenuti e degli obiettivi posti al pensare, sia nella finale condanna del poeta il cui nichilismo viene accostato a quello di Schopenhauer e insieme a questo respinto.

In ogni caso, per Nietzsche Leopardi non fu solo un filologo poeta (in questo Nietzsche lo accomuna a Goethe, contrapponendo entrambi alla genia dei filologi soltanto eruditi) ma fu soprattutto un originale e acuto filosofo, le cui riflessioni di indole etica e metafisica sono di grande spessore. L’ontologia leopardiana, infatti, formula una articolata critica all'Idealismo e alla sua identificazione dell’essere con il bene.
Allo stesso modo di Nietzsche, Leopardi esclude qualunque Aufhebung –l’itinerario senza scarti verso la perfezione-, qualsiasi vittoria dello Spirito nel mondo, ogni forma ingenua e insieme tracotante di antropocentrismo. Ma contrariamente a Nietzsche Leopardi non crede possibile neppure alcuna forma di Überwindung, di oltrepassamento dell’umano in direzione della appropriazione di un’esistenza destinata comunque allo scacco.

fermate obbligatorie e fermate a richiesta

Leggere il post di Pietro, ma anche dei due Alberti , di Francesco e Donatella, mi richiama a rientrare nei ranghi e assaporare i contenuti delle operette di Leopardi con l’approccio di godersi l’opera di un genio con i suoi pensieri sublimi ma anche di un uomo con tutta la sua “umanità” . Il passo della prima operetta riportato da Pietro, mi ha richiamato quanto ho scritto (perdonatemi l’auto-citazione) molti anni fa:
“Fermarsi neutrali, quando la vita non lo impone, quando il lutto non c’è e il bivio è lontano. Fermarsi, per far muovere libero il pensiero.”
Ci sono nella vita “fermate obbligatorie” che ci fanno (o almeno tentano di farci) volare alto, ma quanto valgono di più le “fermate a richiesta”! quelle che ognuno di noi dovrebbe fare per libera scelta”, per esigenze artistiche, culturali e/o spirituali, cioè quelle di cui gli spiriti (come Leopardi) si sono nutriti, si nutrono e si nutriranno come indispensabile alimento per sé e per tutta l’umanità.
Armando

mercoledì 23 gennaio 2008

Le biografie sono importanti per capire, ma con Leopardi si è sempre esagerato, come se si dovesse per forza "spiegare" in modo deterministico la sua opera (della serie: uno struppiato non può che ragionare così...) per una certa resistenza ad immergersi senz'altro nelle sue struggenti riflessioni sull'esistenza e sul nostro destino.
Armando dice "torniamo ai fatti" ma, senza volere riprendere il dibattito su "fatti e interpretazioni", mai come nel caso della creazione artistica quello che conta sono le risonanze che ci procura l'incontro con l'opera d'arte, quello che evoca in noi. Non sarà che Leopardi richiama in noi interrogativi che preferiamo rimuovere?
Io sospetto che anche noi, pur così bene adattati e realisti, nascondiamo come lui un desiderio immmenso di felicità e di pienezza fatalmente insoddisfatto, solo che noi siamo stati al gioco del demagogo Giove (parlo della prima operetta morale, così cominciamo ad occuparci dei contenuti, come suggeriscono Alberto Biuso e Francesco Vitale e come ci implora lo stesso Leopardi) il quale Giove ci ha dato, per distrarci, tanti problemi più "concreti" e quotidiani da risolvere a cui dedicare tutte le nostre energie, ci ha implicato "in mille negozi e fatiche, ad effetto d'intrattenere gli uomini e distrarli quanto più si potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana felicità". Come Nietzsche, anche Leopardi mi sembra un grande psicologo.
Pietro

Le case dei filosofi (dei poeti, dei musicisti, dei pittori...)

Bene, cari amici. Una volta conosciuto tutto (o quasi) di famiglia, amori, delusioni, malattie, euforie, depressioni, mamme e contesti politici, non è opportuno e necessario passare ai contenuti? E quindi ragionare sui concetti, gustare i versi, farsi afferrare dalla musica, immergersi nelle forme di un dipinto?

Invece di rimanere sempre nell’anticamera biografica, perché non entrare negli splendidi palazzi della creazione, del sapere e della bellezza?
volevo solo commentare l'intervento di Alberto Biuso ma dato che ieri alla "cenetta" non si è parlato d'altro, il commento diventa un intervento:
come si farebbe a capire ed amare la musica del sax di Charlie Parker o la voce di Billie Holiday senza conoscerne la biografia tormentata e ribelle?! io penso che la nostra "anima" e la nostra capacità razionale sono figlie di un "unicum" fatto di energia e di materia inscindibile, vale a dire: della "persona" che siamo. Credo sia quanto meno azione monca voler distillare il prodotto del pensiero di un artista senza conoscerne la vita (con le sue miserie), come elemento valutativo dello stesso. Il soffio della creazione nel tempo o nell'eterno presente non è forse unico? Il guaio è che siamo condizionati da coloro che hanno valutato un'opera prima di noi dando pesi diversi ai vari aspetti, materiali e non, dell'artista (pesi determinati dal tempo e dalla cultura in cui avviene la valutazione).

lunedì 21 gennaio 2008

La vita è bella.Sottotitolo: Leopardi ed il pensiero divergente

Mi permetto ancora una volta di partecipare al dibattito su Leopardi spezzando nuovamente una lancia a favore di un possibile ottimismo, che è contenuto nei suoi scritti. Sapete bene che sono digiunotta di filosofia, però già aver letto il modo in cui Giacomo parla di amore nella sua prima operetta, mi ha convinto ancora di più che, possibilmente, anche lui pensava che una "filosofia dolorosa ma vera" non volesse dire automaticamente pessimismo, anzi. Trovo il coraggio di scrivere dopo i precedenti autorevoli contributi, non ultimo quello dell'autore stesso con la sua lettera che sembra scritta per noi ed inviataci tramite Marcella.
Sono alcuni giorni che rifletto sul concetto di "pensiero divergente". Basta usare un qualsiasi motore di ricerca per saperne di più, io ne ho la memoria da un corso di formazione fatto a Roma, da cui tornai come se avessi avuta una visione, per i giochini pratici che ci furono fatti fare, tanto per capire di che si trattasse.
Guilford distingue due modelli di pensiero: convergente e divergente. Il pensiero convergente è il ragionamento logico e razionale. Consiste in un procedimento sequenziale e deduttivo, nell'applicazione meccanica di regole apprese, nell'analisi metodica di dati. Si adatta a problemi chiusi che prevedono un'unica soluzione. E' il pensiero sollecitato anche dalla scuola.
Il pensiero divergente è il pensiero creativo, alternativo e originale. E' sollecitato da situazioni aperte, come quelle sociali, e che ammettono più soluzioni alternative. Secondo Guilford il pensiero divergente è misurato da 3 indici:
Fluidità: parametro quantitativo basato sull'abbondanza delle idee prodotte
Flessibilità:capacità di cambiare strategia ed elasticità nel passare da un compito ad un altro che richiede un diverso approccio
Originalità:capacità di formulare soluzioni uniche e personali che si discostano dalla maggioranza
Importante il richiamo all'
Autonomia di pensiero ed all' Autostima che Bandura definisce" il sistema immunitario della coscienza".
Il sistema immunitario non rende invulnerabili alle malattie, ma predispone l'organismo alla difesa e rende meno devastante un eventuale attacco dei virus. Così, l'autostima non preserva dal dolore o dall'errore, ma consente di affrontarlo più preparati e di uscirne meno danneggiati.
Finiti questi richiami da manualetto, mi piace pensare alla capacità di applicazione del pensiero divergente alla realtà fatta da Benigni nei suoi film, per me migliori: Down by law, Johnny Stecchino, Il Mostro e chiaramente il superpremiato La vita è bella (mi vengono ancora i brividi a riascoltare con la mente la voce della Loren che chiama Roberto sul palco). Secondo me Benigni ha accarezzato a lungo questo modo di guardare alla realtà, esprimendolo talora in modo parallelo ad una lettura convergente, per poi esplodere con sicurezza ed a tuttotondo nel film sui lagher.
Si poteva parlare meglio di amore, bellezza e, contemporaneamente di realtà dolorosa?
Un abbraccio, Donatella.


Cari cenacolanti, non potrò esserci Martedì sera a discutere con voi su Leopardi per concomitanti ed urgenti problemi “addiopizzari”. Me ne duole perché questi nostri incontri, indipendentemente dall’autore su cui si riflette, per il modo in cui ci relazioniamo, mi sollevano spirito e morale. In attesa dunque di conoscere quanto vi direte attraverso l’obiettiva sintesi di Pietro, contribuisco alla discussione sottoponendovi quanto in una lettera al De Sinner del 1832 scriveva Leopardi contro chi ha bisogno di giustificare la sua “filosofia disperata” accusando i suoi malanni. Le sue parole delineano da una parte la sua attenzione a voler essere “filosofo” dall’altra il suo rifiuto a considerare la sua visione della vita come risultato delle sue personali condizioni.
Buona cenetta
Un abbraccio
marcella
Quali che siano le mie sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse un po’ esagerare in questa rivista, io ho avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso, né con frivole speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione. I miei sentimenti verso il destino sono stati e sono sempre quelli che ho espresso nel Bruto minore. E’ stato proprio per questo coraggio che, essendo stato condotto dalle mie vicende ad una filosofia disperata, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto, è stato solo per effetto della debolezza degli uomini, che hanno bisogno d’essere persuasi del valore dell’esistenza, che si è voluto vedere le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze individuali e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali, ciò che si deve solo al mio intelletto. Prima di morire, io voglio protestare contro queste invenzioni della debolezza e della volgarità, e pregherò i miei lettori di cercare di demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare i miei malanni."

domenica 20 gennaio 2008

Leopardi e Schopenhauer

Caro Pietro e amici tutti,
vi ringrazio per l'aver preso in considerazione la mia breve analisi delle Operette.
Mi permetto di ribadire l'invito a leggere Leopardi nella sua profondità teoretica e non mediante un gossip storico che -alla fine- impedisce secondo me di comprenderlo.
Provate a leggerlo facendo lo sforzo di dimenticare tutto quello che sapete sulla sua vita, come se fosse un autore del tutto sconosciuto...

A motivare un invito così drastico c'è anche una clamorosa controprova e cioè Arthur Schopenhauer. Questo filosofo contemporaneo di Leopardi (1788-1860) era ricco, bello, un morettino che aveva un grande successo con le donne (non si sposò mai ed ebbe delle amanti da sballo) e -a partire dal 1848- conosciutissimo e ammirato in tutta Europa.
Eppure le affinità fra di lui e il nostro Giacomo sono grandissime. Schopenhauer critica in modo feroce e geniale ogni forma di idealismo metafisico, ottimismo antropologico, razionalismo gnoseologico, salvezza religiosa (e cristiana in particolare).

Contro Rousseau reputa che l'uomo sia naturalmente crudele e si unisca agli altri solo per bisogno, che il vero inferno sia questo nostro mondo che è il peggiore dei mondi possibili tanto che se lo fosse un po' di più sparirebbe proprio.
Contro ogni storicismo sostiene che la storia sia priva di senso e di scopi, che la cosa migliore ci sia preclusa perché consiste nel non essere mai nati. E rifiuta il suicidio anche perché vi vede un estremo atto d'amore verso la vita...

Tutto questo è pensato da un uomo a cui non mancava nulla. Come la mettiamo con lo stantio e banale luogo comune che affligge Leopardi fin dalle aule scolastiche? :-))

sabato 19 gennaio 2008

Con la prima cenetta su Leopardi abbiamo iniziato a riflettere su questo grande poeta che, prima di oggi, molti di noi non sospettavano potesse essere classificato anche fra i filosofi. Ma, come Augusto ci ha spiegato, questo riconoscimento è abbastanza recente ed anche per Nietzsche (chi lo avrebbe mai detto) è stato lo stesso: all'inizio neppure lui veniva considerato un filosofo!
Augusto ha introdotto le riflessioni su Leopardi partendo dal breve ma penetrante commento che ci ha fatto pervenire Alberto Biuso (che qualcuno confondeva con il nostro compagno di percorso Alberto Spatola).
Anche Augusto, come Alberto Biuso, riconosce che è riduttivo inscatolare Leopardi entro lo schema del pessimismo (ancorchè cosmico) ma, con Anna Pensato, ritiene che non fosse neppure un allegrone dedito agli scherzi ed alle goliardate e si è detto convinto del nesso tra le sue malandate condizioni fisiche e di salute e la sua filosofia. "Certo essere gobbi - ha spiegato Augusto - non significa essere filosofi, ma aiuta! Io, ad esempio, se fossi stato più alto e più bello, non mi sarei mai dato alla filosofia ma sarei diventato una star delle fiction televisive."
Sulla stessa linea, Armando ha fatto notare come non può essere un caso che i più grandi artisti e pensatori del passato fossero, nella vita di tutti i giorni, persone con seri problemi personali e relazionali. Sicuramente, ha continuato Armando, oggi non avremmo i loro grandi lasciti spirituali se Leopardi e Nietzsche fossero state persone più socialmente adattate e si fossero trovati un posto alla Regione.
Maria, questa volta più severa del solito, ha voluto sottolineare che Leopardi soffriva evidentemente di una banale depressione ma che è responsabile delle sue "non" scelte, del suo volersi crogiolare nelle sofferenze e rintanarsi nel chiuso delle sue stanze. Commoventi, a questo punto, gli slanci degli altri commensali che hanno cercato di difendere il "nostro" da queste accuse: Donatella (che pure nel blog lo ha definito ingenerosamente un "viziatello") ci ha ricordato che non sono spazi chiusi ed angusti quelli che Leopardi descrive nelle sue liriche che, invece, palpitano di un desiderio di spazi liberi e di infinito ed evocano il cielo stellato ed il cosmo intero: "Leopardi non è un pessimista ma un realista - ha concluso - dato che aveva il coraggio di volgere uno sguardo oggettivo sulla realtà". E Marcella ha continuato: "Non c'è una lamentosità sterile in Leopardi che, prima di contestarla, vuole guardare in faccia la realtà. Non c'è un crogiolarsi passivo di fronte alla vita e la sua protesta non è priva di progettualità: basta leggere la Ginestra, che è un inno alla fratellanza fra gli uomini ed all'amore".
Infine Alberto (Spatola): "Il substrato del filosofare è la vita, l'esperienza che se ne ha: é normale che le sfortunate ed infelici esperienze di Leopardi e Nietzsche abbiamo prodotto una filosofia "dolorosa ma vera".
Concordo, ed a questo proposito chiudo citando quella che, per me, è la più bella e vera poesia del nostro Giacomo: "La vita non è una gita" che fa :
Io penso che la vita
non sia una bella gita
come una scampagnata
di una gaia giornata
ma un viaggio andato storto
un caos all'aeroporto
con stress, disguidi e sbagli
e perdita bagagli.
Il prossimo incontro martedì 22 gennaio per il commento delle prime tre operette morali.
Ciao Pietro

mercoledì 16 gennaio 2008

Il piacere di aver fatti tutti i compiti assegnati


Da bravina ho terminato le letture per la nostra prossima cenetta; mi trabocca lo stupore per la modernità del nostro/vostro/loro Giacomino, per cui stasera l'ho invitato a cena, davanti ad una sontuosa fiorentina, sperando che possa bastargli per gufare un pò di meno.
Spero non porti il suo passero, con la fidanzata di turno, che già mi hanno reso difficile un breakfast.

Post scriptum: il suo cellulare l'ho avuto da un portuale di Ancona; gli chiederò se posso passarlo , se volete.
Donatella.

lunedì 14 gennaio 2008

Andrea Volpe mi chiede di pubblicare un suo contributo relativo ad un mio commento sul blog a proposito di "fatti e interpretazioni" in cui citavo una frase di Hartmann ( "Vi inviterei a rifiutare quella sorta di nominalismo dei fatti che svaluta il ruolo della percezione e della conoscenza. A questo proposito ho scoperto che un certo Hartman usava un esempio che credevo mio e che spiega molto: il suono nasce solo dall'azione reciproca tra vibrazione ed orecchio").
"L'adesione dello spirito al regno dei valori è come un legame con un altro mondo, quasi la sua disposizione ad ascoltare il richiamo che ne discende nel mondo reale, ad interpretare l'eigenza dettata dai valori....Il sentimento umano del valore è il protrarsi dello spirito vivente dentro l'altro mondo; o, piuttosto, al contrario, il protrarsi di questo mondo altro, in sè ideale e indifferente alla realtà, nel mondo reale. L'essere umano vivente, lo spirito personale, è il punto in cui il mondo reale si apre all'esigenza ideale che proviene dai valori.... L'uomo è quindi chiamato a mediare i valori del mondo reale>> Da N. Hartmann, Il problema dell'essere spirituale, Firenze 1971, pp. 209-210.
È importante notare che per Hartmann il regno dei valori è “oggettivo”, corrisponde al “cielo stellato” di Kant e, come questo, è riconoscibile da ogni uomo (fenomenologia)! Ovviamente, errori a parte, come quello noto come fallacia naturalistica. Su questo versante Hartmann approda all’ateismo, ma con una modalità tale che per lui si può, forse, parlare di “materialismo trascendentale”. Altri filosofi, invece, partendo dalla percezione di un mondo oggettivo di valori, si convincono a porre Dio come fondamento di ogni valore (v. D. Von Hildebrand).
Su questo punto c’è una trattazione affascinante su Privitera S. (ed.), Il volto morale dell’uomo. Avvio allo studio dell’etica filosofica e teologica (Facoltà Teologica di Sicilia - Istituto Siciliano di Bioetica - Collectio Moralis 1), ISB, Acireale (CT) 19992, pp. 61-77.

Andrea Volpe

...io vo comparando ...!

Carissimo Giacomo,
a questo punto ti scrivo anch’io, io che sono stato sempre un tuo profondo ammiratore, sin da quando ero appena adolescente. Non ho mai creduto fino in fondo alla figura che hanno voluto appiopparti, quella di un uomo che soffre dell’incomprensione altrui e della solitudine dettata da ciò che tu hai appreso di te da altri. Ho più creduto a Buzzati, quando ti ha definito un “alteta”. Sì, un atleta dell’anima e delle sue possibilità percettive.
E’ vero che a volte hai parlato male della Natura, ma era solo la tua parte razionale, attenta ed imperdonabile osservatrice, in perenne lotta con la tua parte più intuitiva e poetica, come gli insetti del prato. Hai saputo contenere la doppia identità dell'uomo: quella che si sconforta di fronte alla crudezza e all'abbandono, e quella che incomparabilmente riesce a sentire, e a scolpire in versi, l’eterno ed infinito Amore, quella forza misteriosa in grado di donare estasi senza tempo né ragione, senza luogo o contesto particolare.
Più di tantissimi altri hai sperimentato cosa significa amare al di là di ogni limite imposto, e solo per questo sempre sarai amato.
Adesso che, molto più in là, tu sperimenti questa condizione del puro esistere, sono sicuro che mi ascolti e che gioisci con me, quando nessuno può sentirmi ed io declamo ad alta voce i tuoi versi che spontaneamente emergono dalla mia memoria profonda. Non potrei tollerare d’esser preso per pazzo, nemmeno attraverso il sorriso imbarazzato di un’amica occasionale… Allora la mia voce tuona non soltaria esattamente come la tua, di fronte all’orizzonte del mare e all'aspra salsedine che aggrdisce le colline fossilizzate: insieme saremo al confine dell’infinito, la netta demarcazione che tu sapevi gregiamente “fingerti”, come una parte di te stessso. Insieme rivedremo le aperte valli della luce finissima: campagne deserte ed abitate al contempo. Dove nessuna azione è proibita o strana, tu mi capisci. Allora io sarò libero come te, insieme alla tua presenza eternamente eterna.
Quando la mia voce si unisce alla tua io comprendo, lontano dai libri di scuola e dalle accademie di pensiero, la tua forza difficilmente raggiunta da altri pensatori.
In te intuizione, poesia, comprensione, saranno per sempre una cosa sola.

domenica 13 gennaio 2008

Ricordando Roland Barthes


"parole..parole..parole..", ognuno di noi ha ancora il ricordo delle voci reciprocamente graffianti e profonde di Mina ed Alberto Lupo, mentre da quel giorno non si sono più potute regalare caramelle, senza aver chiesto, o essere presi per chiedere qualcosa in più. Un blog vive di "pensieri e parole" (caro buon Lucio Battisti!) ed è chiaro che attraverso essi/esse ci si vuole confrontare. Ultimamente in questa sede,abbiamo fatto parecchio ricorso al concetto del dire e del parlare, ora come cose distinte e separate dai fatti e dal fare e lavorare, rispetto cui potrebbero risultare distrattive, ora come mezzo per la comunicazione della personale lettura ed interpretazione della realtà, mediante la percezione e la conoscenza, al di là del "nominalismo dei fatti", ora con il sottile timore che quanto detto potesse risultare ovvio. Anche io credo molto nella fantasia, nell'intuizione ed in tutte le sensazioni in genere, che mesi fa parecchi tra noi abbiamo equiparato, nelle cenette, a mezzi di conoscenza di pari dignità della ragione; però in tutto questo la mia testa funziona in modo un pò meccanico e leggere la parola "ovvio" è stato come avvertire un impulso irrefrenabile a cliccare sul link della parola, il che in pratica è significato prendere dallo scaffale il mitico "L'ovvio e l'ottuso" di Roland Barthes e sfogliandolo interrogarmi sul mio interesse a stare e partecipare alle cenette. Si, perchè la prima sovrapposizione percettiva che ho avuto è stata tra me, presente alle cenette, e Fantozzi, presente al dibattito del cineforum aziendale sulla "Corazzata Potemkin" di Ejzenstein, visto che un capitolo del libro è dedicato a questo film. R.B., argomentando di semantica delle immagini, di questo film, parla di un primo livello informativo di comunicazione (scenario costumi, personaggi, etc.), di un secondo livello simbolico di significazione (attraverso l'uso dei simboli è evidente il senso della rivoluzione) e di un terzo livello che definisce significante (eccede e travalica il significato)...poetico. Definisce senso ovvio il secondo livello dei simboli di cui è carico il film, una sorta di "decorativismo" funzionale alla "verità enfatica del gesto nelle grandi circostanze della vita" (Baudelaire). Esso è intenzionale e prelevato in una sorta di lessico generale, comune, che mi cerca in quanto destinatario del messaggio...viene incontro a me...obvius significa che viene incontro. In quanto all'altro senso, il terzo, quello che è "di troppo", come un supplemento che la mia intellezione non riesce bene ad assorbire, ostinato e nello stesso tempo sfuggente, liscio e inafferrabile, propongo di chiamarlo il senso ottuso...obtusus significa che è smussato, di forma arrotondata... uno smussamento di un senso troppo chiaro, troppo violento. Barthes fa riferimento ai particolari che appaiono fuori luogo o eccessivamente caricaturali rispetto ai personaggi; continuando ricorda come l'angolo ottuso sia più grande dell'angolo retto ed afferma che anche il terzo senso, l'ottuso, gli sembra che sia più grande che non la perpendicolare dritta e tagliente del racconto..che apra il campo del senso totalmente, cioè infinitamente. Sono disposto ad accettare per questo senso ottuso la connotazione peggiorativa: sembra spiegarsi al di fuori della cultura, del sapere, dell'informazione; analiticamente, ha qualcosa di derisorio; in quanto apre all'infinito del linguaggio, può apparire limitato nei riguardi della ragione analitica...sta dalla parte del carnevale. Quindi ottuso va proprio bene. Più avanti chiarisce che questo senso ottuso è come uno sfogliato di senso che lascia sempre sussistere il senso precedente, come in una costruzione geologica; dire il contrario senza rinunciare alla cosa contraddetta. E' in queste parole che aggancio il mio stare alle cenette ed i nostri conversari; forse siamo tutti alla ricerca di un poetico, sfuggente infinito. Il fatto che poi Barthes, con il suo libro sulla mitica corazzata, abbia sancito la fine dei cineforum ad essa dedicati è un merito di cui penso gli siamo tutti riconoscenti e grati.

sabato 12 gennaio 2008

Se Silvia fosse stata meno fuggitiva.....


Questo blog è interessante e permette il confluire di visioni anche molto diverse di fatti, idee , e persone. Forse dovrebbe essere un po più centrato sul tema delle "cenette filosofiche ", ma certamente è un buon agorà per discutere e dialogare. Su Leopardi, per esempio , si sono espressi, in modo molto diverso, alcuni amici cenacolanti. Non riesco a vedere il Poeta dell'Infinito come un viziato. Semmai lo vedo come un infelice , che ha fatto della propria infelicità la radice della propria ispirazione poetica , e la trama sottile della propria visione filosofica , espressa nelle operette. Ma L. resta indiscutibilmente grande, in quanto la grandezza delle sue opere non è data dalla grandezza della sua personale infelicità, ma dalla capacità artistica con cui ha espresso tale infelicità. Quello dell'infelicità è un tema che può essere condiviso facilmente da qualunque essere umano , almeno in alcuni momenti della vita, e ciò rende Leopardi universale e particolarmente caro a chi condivide tale angolatura esistenziale. In particolare Leopardi è il poeta dell'età adolescenziale , età in cui più spesso ci si confronta con alcuni motivi di sofferenza esistenziale ( solitudine , dismorfofobie , delusioni , ricerca dei perchè dell'esistenza, etc etc. ). E' facile immaginare ( l'ho detto anche durante la cenetta ) che un diverso atteggiamento di Silvia (per esempio) , più compiacente e disponibile, meno "fuggitiva " rispetto al poeta , avrebbe regalato a Giacomo alcuni momenti di estasi corporea , ed avrebbe, forse , privato tutti noi di una poesia molto bella. Il nocciolo dell'ispirazione poetica e filosofica del Recanatese ha a che fare, è inutile negarlo , con le sue note vicende biografiche e familiari, e questo giudizio non vuole essere affatto riduttivo rispetto alla qualità eccezionale della sua produzione, che resta valida e mirabile al di là della stessa biografia. Grande dunque Leopardi , ma infelice. Forse diventato Poeta e Filosofo per una donna che era si ridente , ma troppo fuggitiva

venerdì 11 gennaio 2008

Thinking Blogger Award

Siamo quindi in corsa per il "Thinking Blogger Award". (Vedi commento all'ultimo post di Donatella). E' un premio ai siti più meritevoli per i contenuti e si assegna tramite catena di blog. Anche il nostro Giacomino si lascerebbe sfuggire un controllato sorriso.

mercoledì 9 gennaio 2008

Caro realistico Giacomo,

quando ti studiavo, mi eri proprio antipatico ed anche ora che, dopo tanti anni, ti ritrovo come autore scelto da stimati e coltissimi commensali di cenette, il fatto che tu abbia chiamato "morali" le tue "operette", non ti rende ai miei occhi più simpatico. Si perchè ci vuole più coraggio Giacomino, l'hai detto tu stesso: di morale in questa realtà così attenta solo al suo corso, c'è ben poco e se di morale si può parlare è nel senso che si usa per dire morale di una favola, di un racconto, di un discorso, di un avvenimento, di un fatto...L'HO DETTO!.. DI UN FATTO. Ben ti viene in aiuto, ancora oggi Umberto Eco a ricordarci che "accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera" significa accettare che ci sono fatti, ci sono realtà che resistono a tutte le possibili interpretazioni. E ben ti viene ancora in aiuto la passione nascosta in uno dei cassetti (chiamo così, mi perdonerai, i commenti ai post) di questo blog che ci ricorda la necessità di faticare e lavorare per accettare i fatti, perchè è più facile, lo dici pure tu, mi sembra, dissimulare l'infelicità umana. La distinzione di Eco, caro Giacomo, mi ricorda, tra l'altro, una distinzione valutativa che bisogna talora ricercare in ambito giuridico tra fatti e "fattoidi" (cfr. Gulotta) ove con questo termine si intendono eventi che grazie al contenuto dato da interpretazioni personali, possono assumere la valenza di fatti. Che poi Eco deve avere presente che, come rileva Popper, “la falsificabilità separa due tipi di asserzioni perfettamente significanti: le falsificabili e le non falsificabili. Essa traccia una linea all’interno del linguaggio significante, non intorno ad esso”. Verrebbe di non parlare più e starsene zitti. Tu davanti all'infinito dici di sgomentarti, perchè poi ognuno di noi sceglie un pò l'identità con cui si presenta al mondo e tu, lasciatelo dire, da viziatello, non hai mai smesso di commiserarti e piangerti addosso, ma non fa gioco e non importa rispetto agli spazi di infinito e di realtà da cui poi ti lasci riempire l'anima, tanto da avercene lasciato descrizioni sicuramente pregevoli nel realismo, nella sensibilità e nei particolari. Però non mi piaci tanto, te lo devo dire, perchè non riesci a reggere la verità e piagnucoli, nè penso che bisogna per forza consolarci l'un l'altro in alternativa al mentirsi ed al dissimulare. Penso che vivere alla luce dei fatti apre ad una sensibilità personale più vigile e sincera verso l'ambiente e le relazioni umane e tu lo sai e ce ne hai dato prova; l'unico particolare, è che fra le cose più difficili per un essere umano è reggere la solitudine e l'incertezza che può scaturire da una filosofia dolorosa ma vera, rispetto cui anche un malanno è rassicurante, ma già a te l'infinito sgomentava. Pazienza. Mi puoi venire in sogno per discutertela e..portami numeri buoni da giocare. Donatella.

fatti e interpretazioni

Qualche settimana fa sulle pagine de “l’Espresso” Eugenio Scalfari, commentando l’ultimo libro di Umberto Eco “Dall’albero al labirinto” e a proposito del fatto (inteso come realtà oggettiva) e le sue interpretazioni, sostiene che “ i fatti sono muti perché materia interpretabile. I fatti sono…… fenomenologia. Oggetto di sguardo e lo sguardo di per sé è un’interpretazione né può essere altra cosa perché è il mio sguardo e non quello di un altro……. Ecco perché la realtà è relativa ed ecco perché non esiste alcuna possibilità che il fatto opponga resistenza alla mia interpretazione se non con un’altra interpretazione” (e cita Nietzsche: “il ccntro non esiste”)……. Il centro è dappertutto e cioè in nessun luogo”
Umberto Eco sullo stesso periodico gli risponde: “possiamo fare tre affermazioni: 1)Non ci sono fatti ma solo interpretazioni (relativismo radicale); 2) Tutti i fatti li conosciamo attraverso la nostra interpretazione (affermazione ovvia); 3) La presenza dei fatti è dimostrata dal fatto che alcune interpretazioni proprio non funzionano e dunque ci deve essere qualcosa che ci obbliga a buttarle via.” Spesso si fa confusione fra questi tre tipi di affermazione. Eco propende per la terza affermazione: “ Quel qualcosa che sfida la mia interpretazione io lo chiamo fatto, i fatti sono quelle cose che resistono alle mie interpretazioni.” Insomma per Eco “i fatti sono quella cosa che, non appena li interpretiamo in modo sbagliato, ci dicono che a continuare così non si può andare avanti.” E questo è condiviso da molti filosofi e scienziati.
Ora vorrei che, visto che in fondo si parla di “realtà” e “verità”, commentassimo queste considerazioni che a me sembrano interessantissime ma che sono sempre “affette”
da una visione antropocentrica e, senza scomodare gli extraterrestri di Francesco Vitale, non tengono conto che ci potrebbero essere interpretazioni non umane (si pensi al mondo animale) che potrebbero mettere in crisi le affermazioni di Eco (benché io per “vocazione” penso che siano condivisibili!!!!). Auguri buon anno a tutti
Armando

sabato 5 gennaio 2008

Da Alberto Biuso un bel messaggio di incoraggiamento al gruppo ed alla sua ultima scelta

Cari amici,
una scelta eccellente, quella delle Operette leopardiane.
L'Autore secondo me è non solo uno dei massimi poeti italiani di sempre ma anche un filosofo originale e profondo.
Il suo pensiero è di una tale ricchezza da esulare rispetto a categorie insufficienti come "pessimismo" e "ottimismo", nelle quali manuali scolastici e menti pigre continuano a volerlo intruppare.
Le Operette sono uno dei pochi libri italiani radicali, espliciti sulla natura e sulla storia, pervasi da una serietà di intenti e lucidità di prospettive che non appartengono certo alla tradizione nazionale. Si possono accostare, in questo, al Principe e alla Storia della colonna infame. Ha, poi, una varietà di toni ("musica" veramente, come osservò Montani, citato da Pietro), una differenziazione lessicale, una ricchezza stilistica tali da non stancare mai, neppure quando i contenuti sono ripetitivi e il discorso si fa un pò retorico.

E' un gran libro, soprattutto, di filosofia morale. Alla base di ogni discorso etico deve stare una ben chiara antropologia. E quella di Leopardi lo è.
Lo scrittore si inserisce in quella linea della filosofia europea che da Spinoza a Heidegger sottolinea la finitudine dell'ente uomo, il suo essere effimero in un mondo che si muove e vive in assoluta indipendenza rispetto alle sue parti.
E' davvero notevole il contributo leopardiano alla filosofia intesa come riflessione morale e non solo come metodo scientifico di indagine sulla natura e sulla storia. Tanto più che Leopardi è perfettamente consapevole della propria strategia e dei suoi fini e rifiuta con grande lucidità la riduzione biografica che vorrebbe fare delle sue opere la mera conseguenza dei suoi malanni: «E sentendo poi...dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d'infermità, o d'altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso...poi tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi», (lo dice all'inizio del Dialogo di Tristano e di un amico). A chi gli vorrebbe negare la qualità teoretica e l'oggettività dell'analisi, l'Autore così risponde: «malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn'inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera» (Ivi).

Buona lettura, dunque!
Alberto

giovedì 3 gennaio 2008

Cari compagni di viaggio
Dopo le materialistiche abbuffate di queste feste, martedì sera otto gennaio, alle solite ore e con le solite modalità, riprenderemo a coltivare lo spirito con le nostre nostre cenette filosofiche. Cominceremo a commentare le "operette morali"di Giacomo Leopardi. Forse qualcuno dei filosofi professionisti premetterà qualche parola sull'opera e sul Leopardi filosofo per renderci, come al solito, più agevole il cammino.
E' previsto un brindisi al nuovo anno (lo spumante è offerto dalla casa) ma sobrio e non troppo allegro, in modo da non stridere con il pessimismo cosmico del poeta con il quale dovremo, invece, cercare di sintonizzarci.
Vi trascrivo, intanto, un simpatico augurio rivolto a noi, attraverso appropriati strumenti mediatici, proprio da Giacomo Leopardi.

" Auguro a tutti voi, filosofi delle cenette, un 2008 solo un poco peggiore del 2007. Comprenderete che è il massimo che posso augurarvi, dato che questa gran p. di natura ci ha fatto così fragili ed esposti ad ogni aggressione nel corpo e nello spirito. Del resto, con quello che si sente in giro, con le guerre, i disastri, gli incidenti e le malattie sempre incombenti, già dovrete ritenervi fortunati se a questo 2008 riuscirete ad arrivare sino in fondo!"

Ringraziamo Giacomo Leopardi, veramente "auguriusu".
Per Vostra comodità vi trascrivo alcune recensioni sul testo trovate su internet (potrete scaricare l'opera da alcuni siti, tra i quali quello appresso segnalato)
A martedì
Pietro
Giacomo Leopardi - Operette MoraliOperette morali. Edizione di riferimento:. Leopardi, Tutte le opere, vol. I, Sansoni Editore, Firenze 1969, con introduzione a cura di Walter Binni e con la ...www.classicitaliani.it/index041.htm

Le Operette morali sono un'opera in prosa di
Giacomo Leopardi, composta tra il 1824 ed il 1826, in un periodo di crisi artistica, personale e filosofica.
Furono pubblicate definitivamente a
Napoli nel 1835 (edizione poi censurata, ma ripubblicata dieci anni dopo dall'amico Antonio Ranieri con numerose sviste) dopo due edizioni intermedie nel 1827 e nel 1834.
L'opera consta di 24 componimenti brevi e meno brevi, dallo stile medio e ironico, che prende a modello lo scrittore greco
Luciano di Samosata e gli illuministi del '700.
I temi sono quelli cari a Leopardi: il rapporto dell'uomo con la storia, con i suoi simili e particolarmente con la
Natura, di cui Leopardi sta maturando una personale visione filosofica, che lo colloca, agli occhi della critica, al limite tra gli autori di poesia e di filosofia.
Leopardi accarezzava già dal
1820 l'idea di scrivere delle "Operette Morali", ma solo nel 1824 il progetto cominciò a prendere piede. In quegli anni, esperienze personali (il trasferimento da Recanati a Roma, nel tentativo di lasciare la "tomba de' vivi", il suo paese natale, e trovare altrove la felicità, illusione presto svanita), poetiche (l'inaridimento della vena poetica della sua prima gioventù) e filosofica (il passaggio dal pessimismo storico-progressivo a quello cosmico), lo portarono ad una produzione serrata di ventiquattro componimenti che riassumessero i cambiamenti avvenuti nella propria, sensibilissima, anima.

Titolo [modifica]
"Operette" è un diminutivo di umiltà; si tratta di componimenti brevi, considerati piccoli in mole e in valore dall'autore. La loro minuzia contribuisce a renderli, però, di un'efficacia filosofica e poetica lucida, programmatica e chiara. "Morali" centra il contenuto filosofico dell'opera: sui "mores", i costumi, a confronto tra l'antichità e la modernità. È un richiamo all'opera "
Opuscula Moralia" di Plutarco.

Contenuto [modifica]
Il rapporto tra l'Uomo, la Natura, la Storia; il confronto tra i valori del passato e la situazione, agli occhi di Leopardi statica e degenerata, del suo tempo; la potenza delle illusioni amorose; l'Infelicità; la gloria; la noia. Tematiche già illustrate nello
Zibaldone, sono qui stese alla luce del cambiamento che sta avvenendo in Leopardi: da un pessimismo storico-progressivo (ovvero, la tesi in base alla quale l'uomo ha perso la possibilità di essere felice quando all'immaginazione si è sostituito il raziocinio) ad un pessimismo cosmico (ovvero, la tesi che l'uomo sia infelice in tutti i tempi e per un inesplicabile funzionamento di una Natura indifferente). La Natura, vista dapprima come madre benigna che cullava gli uomini con immaginazione ed illusioni, fino ad essere rinnegata per il raziocinio, è ora vista come una matrigna indifferente, che conserva gli uomini in una situazione di infelicità permanente per un semplice funzionamento meccanico. La Ragione non è più, adesso, un ostacolo all'infelicità, ma l'unico strumento umano per sfuggire alla sua disperazione.
e Operette morali, il libro «più caro dei miei occhi» come ebbe a definirlo lo stesso Leopardi, sono una raccolta di prose (ventiquattro ) tra satiriche, fantastiche e filosofiche, scritte tra il 1824 e il 1832, dopo la delusione subita nel suo primo contatto con la realtà esterna alla “prigione” di Recanati. Già in una lettera del ’20 indirizzata al suo amico Giordani, Leopardi comunicava che aveva abbozzato «certe prosette satiriche… quasi per vendicarsi del mondo e quasi anche della virtù…». La frase è interessante per capire lo stato d’animo d’ironia, di satira, di ribellione con cui vennero concepite. Le prose sono rivolte al medesimo fine, a quella missione di educatore della sua nazione e degli uomini a cui il Leopardi, da La canzone all’Italia alla Ginestra, non seppe mai rinunciare, nonostante la sfiducia e il pessimismo
Nelle Operette, Leopardi espone il “sistema”, da egli stesso elaborato, attingendo al vastissimo materiale raccolto nello Zibaldone. L’esposizione non è però di tipo dottrinale; Leopardi infatti ricorre a una serie di invenzioni fantastiche, a miti, allegorie, paradossi, apologhi.
Molte delle Operette sono dialoghi, i cui interlocutori sono personaggi fantastici o mitici (Ercole e Atlante, il mago Malambruno e il diavolo Farfarello, la Natura ed un’anima, la Terra e la Luna, un folletto ed uno gnomo, la Moda e la Morte, la Natura ed un Islandese), oppure personaggi storici (Colombo e Gutierrez, Plotino e Porfirio), oppure ancora personaggi storici ed esseri bizzarri o fantastici (Federico Ruysch e le sue mummie, Torquato Tasso e il suo genio familiare). Altre invece sono esposte in forma narrativa, come la Storia del genere umano e La scommessa di Prometeo (specie di racconto filosofico alla Voltaire). Altre infine sono prose liriche (L’elogio degli uccelli, Il cantico del gallo silvestre), raccolte di aforismi (Detti memorabili di Filippo Ottonieri) e discorsi che si rifanno alla trattatistica classica (Il Parini, ovvero della gloria).
Le Operette riflettono stati d’animo e atteggiamenti sentimentali e mentali diversi, anche perché in esse si accavallano due posizioni diverse del Leopardi di fronte alla vita: pessimismo storico e pessimismo cosmico. Leopardi, scolaro del Settecento sensista, aveva posto, come fine dell’uomo, il piacere raggiungibile nello stato di natura, perduto poi per colpa di un processo storico falsato e distorto. Ma, più avanti nel tempo, avvertì che se fine dell’uomo è il piacere, e questo gli è negato, vi è un contrasto tragico tra ciò a cui l’uomo aspira e ciò che può raggiungere, e si convinse che un essere che non può raggiungere il fine per cui è stato creato, è “naturalmente” cioè necessariamente infelice. Partendo dalle tesi sensistiche e illuministiche, il Leopardi, travolto dalla delusione storica del suo tempo, approdò ad un pessimismo più vasto e più profondo che coinvolgeva nella condanna, non più l’uomo e la sua storia, ma la stessa natura. Era questa una conclusione logica: infatti, l’ottimismo illuministico doveva sfociare, per forza di cose, o nell’avvento di un’età effettivamente migliore o in un pessimismo radicale.
Rousseau non abbandonò mai la sua fede nella natura benigna, e pensò sempre di poter ricondurre l’uomo alla felicità; Leopardi, invece, per la logica intrinseca del suo pensiero, distrusse il mito della Natura benigna per sostituirlo con la sfingea Natura, ostile alle creature da essa stessa generate ed indifferente ai loro patimenti. Così viene descritta nel Dialogo della Natura e di un Islandese: «una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto… di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi…». L’uomo, figlio di una Natura matrigna, destinato alla sofferenza e alla morte, non ha che un solo modo per affermare la sua dignità: guardare in faccia serenamente la realtà e il proprio destino, non aggrapparsi a illusioni, riconoscere la propria miseria, e in questo riconoscimento, trovare una ragione di vita. Perciò, ogni volta che Leopardi pensa al dolore dell’uomo, alla vanità delle illusioni e delle speranze, un senso di pietà lo commuove ed egli piange il triste destino suo e degli altri. Ma se l’uomo è incapace di guardare in faccia la realtà e si culla in vane illusioni, il Leopardi si sforza, anche con spietatezza e ironia, di “chiarirgli” quale sia il suo destino. Queste tesi e questi atteggiamenti si alternano nelle Operette con toni diversi: ora, come nel Dialogo di Atlante ed Ercole con sferzante ironia, ora come nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggero, con una cordiale persuasione della vanità delle nostre illusioni, ora come nel Cantico del gallo silvestre con tono grave, solenne, commosso, di chi enuncia verità sofferte e dolorose.
Per esprimere questa sua visione della vita, Leopardi ricorse, come si è detto, a prose satiriche e filosofiche, rifacendosi, in particolare, ai dialoghi satirici di Luciano di Samosata, di Platone e Senofonte, nonché alle prose di divulgazione filosofica e politica, ivi comprese le opere di Voltaire.
Il modello stilistico seguito da Leopardi tende ad evitare l’enfasi retorica, dando vita a prose nitide e sobrie nelle quali la negatività assoluta della concezione della vita si sviluppa ora in toni pacati, resi evidenti dal ritmo lento dell’esposizione, ora in toni polemici di acre ironia. Gli aggettivi sono quanto mai scarsi e compaiono, come gli avverbi, il più delle volte in funzione ironica — «un superbissimo mausoleo»; «disseccato perfettamente»; «una bella mummia»… — La sintassi è sciolta al massimo. Leggendo le Operette, è facile intuire come Leopardi miri a una prosa che vorrebbe essere, ad un tempo, illuministica, cioè razionale, e lirica, capace di interessare e di convincere e, nel contempo, di commuovere. E, in questo intento, riesce perfettamente.
Eloquente, più di ogni altra considerazione, è l’osservazione del primo recensore delle Operette, Giuseppe Montani, che, nell’«Antologia del Vieusseux» nel 1828, così si espresse: «Le Operette sono musica, musica altamente malinconica, le cui voci tutte si rispondono e recano all’anima la più grave delle impressioni», mettendo così in rilievo il carattere corale e lirico dell’opera.
A cura della
Redazione Virtuale