lunedì 21 gennaio 2008

Cari cenacolanti, non potrò esserci Martedì sera a discutere con voi su Leopardi per concomitanti ed urgenti problemi “addiopizzari”. Me ne duole perché questi nostri incontri, indipendentemente dall’autore su cui si riflette, per il modo in cui ci relazioniamo, mi sollevano spirito e morale. In attesa dunque di conoscere quanto vi direte attraverso l’obiettiva sintesi di Pietro, contribuisco alla discussione sottoponendovi quanto in una lettera al De Sinner del 1832 scriveva Leopardi contro chi ha bisogno di giustificare la sua “filosofia disperata” accusando i suoi malanni. Le sue parole delineano da una parte la sua attenzione a voler essere “filosofo” dall’altra il suo rifiuto a considerare la sua visione della vita come risultato delle sue personali condizioni.
Buona cenetta
Un abbraccio
marcella
Quali che siano le mie sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse un po’ esagerare in questa rivista, io ho avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso, né con frivole speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione. I miei sentimenti verso il destino sono stati e sono sempre quelli che ho espresso nel Bruto minore. E’ stato proprio per questo coraggio che, essendo stato condotto dalle mie vicende ad una filosofia disperata, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto, è stato solo per effetto della debolezza degli uomini, che hanno bisogno d’essere persuasi del valore dell’esistenza, che si è voluto vedere le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze individuali e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali, ciò che si deve solo al mio intelletto. Prima di morire, io voglio protestare contro queste invenzioni della debolezza e della volgarità, e pregherò i miei lettori di cercare di demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare i miei malanni."

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