sabato 3 novembre 2007

Ancora contraddizione


Secondo Aristotele la metafisica riguarda lo studio dell’essere, l’ontologia: il principio di non contraddizione ne è il più fermo sostegno. Senza di esso non possiamo conoscere nulla di ciò che conosciamo e non possiamo demarcare la materia e il soggetto di alcuna scienza, come la biologia o la matematica. Se è per questo, non potremmo neanche distinguere tra loro un uomo e un coniglio, né dire se sono bianchi o neri. L’incapacità di fare distinzioni renderebbe impossibile qualunque discussione razionale. Il principio di non contraddizione insomma è la base della ricerca scientifica, come del ragionare comune e di ogni tipo di comunicazione.

il principio di non-contraddizione afferma la falsità di ogni proposizione implicante che una certa proposizione A e la sua negazione, cioè la proposizione non-A, sono entrambe vere allo stesso tempo e nello stesso modo. Secondo le parole di Aristotele, "Non è lecito affermare che qualcosa sia e non sia nello stesso modo ed allo stesso tempo." (voce wiki ita)

Si può dire anche così:

Un sistema logico dove siano valide le comuni regole di inferenza e dove sia anche presente una contraddizione, ossia sia VERA (completamente vera) una affermazione e anche la sua negazione, è privo di logica, di struttura e di informazione, poiché tutte le affermazioni sono vere (comprese le loro negazioni). E quindi non può essere interessante poiché non comunica informazione. (voce wiki ita).

Pietro si chiedeva l’altra volta se per caso nel contesto gnoseologico aperto dalla fisica quantistica non fosse andato in crisi anche il principio di non contraddizione. Ora, a mio modesto avviso, la logica comune, quella che permette di andare avanti nella vita, di scambiare informazioni, di ragionare, come diceva Aristotele (e di cui non godono certe persone, purtroppo, come gli schizofrenici) e come ribadisce giustamente Alberto, non è certamente sovvertita dalla nuova fisica: non posso predicare del mio paracqua che è bianco e nero nello stesso modo e nello stesso tempo, senza accusare con questo anche qualche problemino, quantomeno visivo. Non credo a questi sprechi, ma ammettiamo pure per un attimo che siano vere le teorie di Everett, Deutsch e altri: che ad ogni momento, ad ogni infinitesima scelta si dipartano dal nostro universo mille e mille altri universi in cui si realizzano tutte le possibili alternative che non si sono realizzate da noi (la teoria del multiverso: molto parca nelle assunzioni teoriche e però prodiga di universi). Ma questo non vuol dire che all’interno di ogni universo succitato non valgano più alcune regole logiche (che poi sono onto-logiche) fondamentali. Non si può vivere in un posto in cui non si può distinguere un essere dall’altro, un tavolo da un precipizio, e forse non si può nemmeno immaginare un simile luogo, e pensare in un simile luogo. Non ci riusciremmo di sicuro noi umani, ma solo, forse, il Dio di Spinoza, quello della coincidentia oppositorum.

Nulla è andato in crisi allora, dopo il 900, il secolo breve della fisica, e di tanti altri sconvolgimenti? Non credo proprio. Forse si è come attenuata la natura dell’essere delle cose, il loro stare al mondo, per così dire. Non si può più usare il verbo essere come una volta. Già nel 1933 Alfred Korzybski ha proposto di evitare per quanto possibile il verbo ‘è’ dell’identità, quello che si usa in proposizioni come “Joe è un comunista”, “Mary è una stupida commessa”, “l’universo è una grande macchina”. Il linguaggio che evita il verbo essere serve come antibiotico, secondo Korzybski e i suoi emuli (come l’acuto ed eccentrico R.A. Wilson da cui traggo queste notazioni) verso il pensare demonologico, farcito di stranezze e superstizioni, a cui costringe la grammatica identitaria. Secondo il piano della General Semantic, ci si propone di sostituire al quadro essenzialista del buon vecchio Aristotele, un linguaggio operativo/ esistenziale. Facciamo alcuni esempi in liguaggio essenzialista e traduciamoli in stile operativo:

Il fotone è un’onda – il fotone si comporta come un’onda se viene misurato da certi strumenti.

Il fotone è una particella - il fotone appare come una particella se viene misurato da certi altri strumenti.

John è infelice e irritabile – John in ufficio sembra infelice e irritabile.

John è brillante e allegro – John sembra brillante e allegro in vacanza sulla spiaggia.

La macchina coinvolta nell’incidente era una Ford blu – a mia memoria penso di ricordare che la macchina coinvolta nell’incidente fosse una Ford blu.

Questa è un’idea fascista – a me sembra un’idea fascista.

Beethoven era meglio di Mozart – nel mio attuale stato, sospeso tra educazione musicale e ignoranza, Beethoven sembra meglio di Mozart.

L’erba è verde – alla maggior parte degli esseri umani, l’erba appare verde.

Il primo uomo ha colpito il secondo con un coltello – penso di aver visto che il primo uomo colpisse il secondo con un coltello.

Notiamo subito che la prima e la seconda proposizione (“il fotone è un’onda”, “il fotone è una particella”) si contraddicono a vicenda, se scritte nel ‘linguaggio dell’essere’, né più né meno come se scrivessimo “Robin è un ragazzo” e “Robin è una ragazza”. Nondimeno, alla fine del diciannovesimo secolo i fisici si trovarono a dibattere accanitamente su queste proposizioni, finché, all’inizio degli anni ’20, non divenne ovvio che il risultato sperimentale dipendeva dagli strumenti, o meglio dal set-up strumentale, dal progetto dell’esperimento stesso. Un tipo di esperimento dimostrava ogni volta la natura ondulatoria della luce, e un altro la sua natura particellare. Questa contraddizione causò una notevole costernazione nella piccola comunità dei fisici. Qualche teorico dei quanti cominciò a scherzare sulle ‘ondicelle’. Altri proclamarono affranti che ‘l’universo non è razionale’, e intendevano dire che l’universo non seguiva la logica dell’essere. Altri ancora restarono in attesa speranzosi dell’esperimento definitivo che avrebbe provato se il fotone è un’onda oppure è una particella. E ancora aspettano. Con la traduzione operativa delle due proposizioni, paradossi e irrazionalità spariscono dall’universo: poiché la logica operativa ci ha costretto a parlare di ciò che nello spazio-tempo dell’esperimento è effettivamente avvenuto (una misurazione, nello specifico), mentre il linguaggio dell’essere, per così dire, ci lasciava fantasticare su qualcosa che nello spazio-tempo non è stato mai osservato: il come è del fotone , la sua essenza.

La debolezza (o la forza) del ragionamento aristotelico sta nell’assunzione che delle ‘cose’ dimorano nella realtà, che al fondo di ogni oggetto si acquatti ciò che il cinico filosofo Max Stirner chiamava uno ‘spettro’. L’universo aristotelico presume appunto un assemblaggio di ‘cose’ con ‘essenze’ o ‘spettri’ al loro interno, mentre l’universo della scienza presume solo una rete di relazioni strutturali. Ma questo non significa che il ragionare non richieda più una logica stringente, proprio il contrario semmai.

L’ultima proposizione, che non contiene il verbo essere, e potrebbe quindi andar bene per la logica operativa, introduce però nuove sottigliezze. Infatti se la riferiamo a un famoso (per la sua infidia) esperimento psicologico, rivelerà ancora una volta la spassosa fallacia del linguaggio comune.

Nell’esperimento due uomini irrompono in una classe della facoltà di psicologia, lottando e strepitando, finché uno fa la mossa di accoltellare l’altro, che crolla esanime. La maggioranza degli studenti, ovunque l’esperimento sia stato provato, dichiarano di aver visto un coltello nella mano dell’aggressore. In effetti, costui non ha usato un coltello. Ha usato una banana.