mercoledì 26 novembre 2008

Invito per le 18.15 del 1 dicembre 2008

Lunedì 1 dicembre 2008 alle ore 18.15
Salone del Centro studi "Bonelli"

(presso la Chiesa valdese di via Spezio,
all'angolo con la via Emerico Amari,
alle spalle del teatro Politeama)

incontro pubblico sul tema


Ci si può ancora dire cristiani?



a partire dal volume di Augusto Cavadi

In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani

(Falzea, Reggio Calabria 2008)

Il dibattito sarà introdotto e moderato da Franco Micela.
Interventi previsti:

Francesca Piazza (filosofa)
Elisabetta Ribet (teologa valdese)

sabato 22 novembre 2008

La triste gioia del pensiero adulto

Cari cenacolanti,
martedì scorso Armando ha cercato di contagiarci con la sua travolgente passione per il nuovo testo che, su sua proposta, abbiamo adottato per le nostre esercitazioni di filosofia pratica: "dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero", di George Steiner.
Grazie al nostro ormai pluriennale allenamento, siamo riusciti a resistere alla tentazione di farci trasportare troppo acriticamente dall'onda delle riflessioni di Steiner. Per esempio, ha felicemente osservato Rosario sul primo capitolo: "e se io provo gioia invece che la tristezza di Steiner constatando che il pensiero non sa darmi risposte definitive"? Ed in effetti sembra che Steiner sottovaluti la gioia che il pensiero può dare per il solo fatto di mettersi - insieme al sentimento e alla volontà, direbbe Augusto - alla ricerca della Verità riuscendo a resistere ad infantili pretese di comodi, semplicistici e definitivi approdi.
La tentazione di un pensiero semplificante è tanta, perchè il pensiero è una creatura viva da poco uscita dalle nebbie dell'indifferenziazione in cui era immersa ed ha avuto appena il tempo di guardarsi attorno: non dovremmo dargli il tempo di crescere e maturare prima di lamentarci dei suoi limiti?
Invece risuono anch'io quando, nelle prime pagine del testo Steiner, evocando Schelling, accenna ad un'inevitabile tristezza di fondo che ci accompagna, che assimila al "rumore di fondo" che permea l'Universo dopo la sua nascita, come residuo arcaico del Big Bang.
Ma questa è una tristezza che accompagna ogni processo di crescita, come una sorta di nostalgia per un'unione perduta che ci proteggeva ma ci lasciava anche dipendenti come bambini. E purtroppo solo i bambini piccoli possono pensare magicamente il mondo, che sentono animato ed unito al proprio mondo interiore. Noi adulti, invece, perduta quell'unità originaria, vediamo il mondo di fronte a noi come un estraneo e abbiamo bisogno di capirne il senso: che compito per un pensiero così giovane, naturalmente ancora preda di suggestioni infantili!
Martedì due dicembre commenteremo i primi cinque capitoli e le prime cinque ragioni steineriane della tristezza del pensiero, sperando di demolirle tutte
Pietro Spalla

mercoledì 12 novembre 2008

La ragioni della tristezza del pensiero

Cari filosofi pratici
l'ultima cenetta è stata un po' una sorta di "messa a punto" degli scopi e sulla funzione dei nostri cenacoli.
Il dibattito è stato molto utile ed è stato bello giungere ad una conclusione condivisa (che è poi quella proposta da Augusto): il testo scelto è solo un pretesto per mettere in gioco noi e le nostre visioni della vita, per imparare ad esercitare il pensiero critico.
Per questo esercizio di filosofia pratica, ha spiegato opportunamente Augusto, andrebbero forse bene anche un film o un brano musicale, che potrebbero suscitare, allo stesso modo di un testo di filosofia, risonanze e riflessioni personali da condividere con gli altri.
Si tratta, anche (a mio parere) di imparare ad ascoltare e a dare spazio agli altri: ricordo un articolo in cui che Umberto Eco rimproverava agli italiani di non essere abituati ai "turni di conversazione": anche se noi, in questo, siamo messi molto meglio di tanti altri, non è male se ogni tanto anche noi ci ricordiamo che il nostro scopo è mettere in comune le nostre piccole realizzazioni personali senza alcun intento di convincere gli altri.
Per chudere con il testo di Voltaire e collegarci, nello stesso tempo, a queste riflessioni sul senso dei nostri iincontri, secondo me è stata utile la lezione che ci è venuta da Candido, che non era abituato a pensare criticamente ma aveva bisogno di prendere in prestito le idee di altri che considerava maestri. Ha imparato, dopo tante vicissitudini, che quello che conta è che il pensiero sia veramente "proprio" e questo è, a mio avviso, il senso della sua scoperta finale quando conclude che è importante imparare a "coltivare il proprio giardino", dove può - faticosamente - fiorire l'individualità e l'unicità di ciascuno.
Quando Candido parlava, scrive Voltaire, aveva il cuore sulle labbra. Però non sapeva elaborare un pensiero personale e indipendente.
Poi ha imparato anche questo.
E allora: non vi sembra che il cammino compiuto da Candido è stato - in effetti - lo stesso cammino di filosofia pratica che ci propone Augusto e che noi ci ripromettiamo di compiere attraverso le nostre cenette?
Forse Candido avrebbe imparato prima ad armonizzare le componenti affettive e razionali della la propria individualità se avesse ascoltato Augusto quando, martedì scorso, ci ha incoraggiato a superare questa (recente) separazione tra cuore e pensiero che contraddistingue gli uomini del nostro tempo. Che culo: per noi non sarà necessario attraversare tutte le peripezie di Candido per giungere a questo risultato, dato che abbiamo la fortuna di avere la palestra delle nostre insostituibili cenette filosofiche.
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Il prossimo Martedì ci faremo interrogare dalle prime pagine del nuovo testo che abbiamo adottato su proposta di Armando: "Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero", edizioni Garzanti, Autore G. Steiner.
Nonostante il titolo, Armando ci assicura, sotto la propia responsabiilità, che il libro non ci farà cambiare idea su tutto quello che abbiamo appena finito di dire sulla bellezza del pensiero.
Speriamo: ascolteremo con vivo interesse (e un po' di apprensione) la relazione di apertura di Armando, curiosi di capire come può incoraggiarci a pensare un testo che si presenta con questo (filosoficamente raggelante) titolo.
Pietro Spalla

martedì 11 novembre 2008

io, il pensiero, Pascal e......Steiner


Cari cenacolanti del martedì (uno si e l’altro no),

invitato dal gruppo a presentare martedì 18 novembre il volume da me proposto come prossima lettura: “Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero” di G. Steiner – ed. Garzanti, ho deciso di condividere con voi prima dell’incontro la (possibile) ragione per la quale ho sentito il bisogno di confrontarmi alle cenette sui contenuti del breve saggio in questione.
Dell’Autore e del testo vi parlerò martedì 18, oggi mi propongo di raccontarvi alcuni frammenti autobiografici: Studente universitario in Chimica pura (indirizzo chimico-fisico) più di quaranta anni fa, non mi accontentavo di pensare che la realtà fosse solo frutto dei risultati di teorie matematico-fisiche pensate razionalmente e verificabili sperimentalmente ma che potesse essere il risultato anche di percorsi che derivavano non da processi del pensiero razionale ma anche dall’irrazionale. Lo studio della fisica relativistica prima e della fisica quantistica poi mi confortavano in questa mia tesi, condivisa peraltro da molti, e la biografia di alcuni scienziati protagonisti delle scoperte cosmologiche e di fisica delle particelle lo confermavano (da Enstein a Pauli e Heisemberg e a molti altri) come pure alcuni miei approcci (molto dilettantistici) alla psicologia analitica (Jung e i suoi archetipi in particolare).
Ecco che fui “intercettato” da Blaise Pascal e dai suoi “Pensieri” ; chi era Pascal lo sapete tutti: un grande scienziato vissuto nel XVII secolo che raccontò nei suoi “pensieri” la sua grande conversione filosofica e religiosa. Vi trascrivo alcuni passi:

“L’uomo non è che una canna, la più debole della natura ma è una canna pensante………un vapore, una goccia d’acqua basterebbe a distruggerlo e anche se ciò avvenisse l’uomo sarebbe ancora più grande rispetto all’Universo perché sa di morire e conosce la superiorità dell’Universo su di lui; l’Universo invece non ne sa nulla………. Tutta la nostra dignità quindi consiste nel pensiero!.......... .l’Universo mi circonda e mi inghiottisce come un punto; mediante il pensiero, io lo comprendo.”

E ancora,

“Conosciamo la verità non solo con la ragione ma anche col cuore ed è in questo secondo modo che conosciamo i primi principi e inutilmente il ragionamento, che non vi ha parte, s’industria a combatterli……… infatti la conoscenza dei primi principi è più solida di qualunque altra che ci viene dal ragionamento…. I PRINCIPI SI SENTONO, LE PROPOSIZIONI SI DEDUCONO (il maiuscolo è mio!) ed è inutile e ridicolo che la ragione chieda al cuore di dare prove dei primi principi quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni. Anzi volesse il cielo che non avessimo mai bisogno della ragione e conoscessimo tutto per istinto e per sentimento! Ma la natura ci ha negato questo dono anzi ci ha concesso pochissime conoscenze di questa specie; tutte le altre non si possono acquistare che col ragionamento!”

mi soffermo spesso sul significato di pensiero e quando mi imbattei su Steiner………………..

mi fermo qui, vi ringrazio e……..alla prossima puntata! (martedì 18)……a proposito non ho mai lasciato questo percorso intellettuale cominciato quaranta anni fa e per dirla con un grande giornalista laico del passato : “quaesivi et non inveni”

Armando Caccamo

giovedì 6 novembre 2008

Dal testo alla vita (titolo redazionale) di Augusto Cavadi

Care amiche, cari amici,
a giudicare dalla quantità e dalla qualità (sotto il profilo non solo tecnico, ma anche dell'autenticità esistenziale) degli interventi di ieri sera, non solo non sono 'pentito' di aver sollevato la questione, ma anzi ritengo che dovremmo aiutarci tutti quanti a fare, almeno una volta ogni inizio di anno sociale, una 'messa a punto' collettiva di ciò che siamo e di ciò che intendiamo perseguire insieme. Poiché so benissimo che in questi ambiti le riflessioni non si chiudono mai, e tutti abbiamo da 'ruminare' certe idee forti per assimilarle e rielaborarle creativamente, mi limito a qualche evidenziazione di ciò che mi è sembrato emergere in maniera unanimamente condivisa. Ciò allo scopo di informare - senza volermi sostituire né all'ottimo Pietro né ai frequentatori assidui del nostro blog - gli assenti e, soprattutto, di verificare con chi c'era se ho capito bene o se mi sto illudendo sull'unanimità di questo consenso. Quando Pietro ed Anna, Francesco Palazzo, Giovanni La Fiura, Adriana ed io abbiamo attivato questi appuntamenti quindicinali - estendendo da subito l'invito ad amiche ed amici interessati - eravamo certamente mossi dal piacere di dare un ritmo alla nostra amicizia: in questo le cenette filosofiche hanno raggiunto splendidamente il loro obiettivo, consentendo a molti di noi di non perdere il filo minimale della relazione (come invece purtroppo capita con altri amici con cui, non avendo scadenze periodiche, si finisce col differire gli incontri e con il vedersi due o tre volte all'anno). L'ingresso (su invito personalizzato) di nuove persone che si sono avvicinate perché attratte dalla denominazione "filosofia" è avvenuto, ovviamente, senza particolari filtri né iniziazioni. Ciascuno è entrato nel giro, e - se è tornato - ci è rimasto, perché ha avvertito un secondo obiettivo (oltre l'aria di accoglienza e di cordiale allegria che per fortuna si è instaurata sin dall'inizio e che non è stata apprezzata solo da alcune personalità un po' troppo seriose e permalose): la crescita intellettuale. Leggere testi filosofici è un alimento culturale prezioso anche per chi non fa il filosofo di mestiere: se poi ciò può avvenire con il soccorso di alcuni professori di filosofia e con la possibilità di confrontare le proprie interpretazioni con altri lettori, che cosa chiedere di più dalla vita (se non un "Amaro Lucano")? Ciò che ho voluto mettere in evidenza è che questo secondo obiettivo non è né l'unico né il principale, almeno secondo la mens di noi promotori. Se così fosse, le cenette sarebbero piuttosto dei "seminari di storia della filosofia" e ognuno di noi dovrebbe decidere se gli interessano (la vita di chi come me insegna queste cose è talmente fitta di impegni lavorativi dello stesso genere che la sera del martedì preferirei davvero stravaccarmi sul divano e vedermi la Tv accarezzando con una mano la mogliettina e con l'altra la gattina: in ordine decrescente di affezione). Qualora mi dovessi sobbarcare a questa prestazione professionale, preferirei rimandarla al 2011 (quando dovrei essere in quiescienza dalla scuola) e, soprattutto, riterrei opportuno prepararmi meglio didatticamente: se nelle mie classi si dovesse verificare un tasso di partecipazione 'percepibile' simile a quello delle nostre cenette, lo riterrei francamente un mio fallimento. Ritengo mio dovere inderogabile portare tutti a esprimersi in pubblico: tutti, "non uno di meno". Ancor meno, sei o sette di meno. Ma allora quale sarebbe il terzo obiettivo (non in alternativa ai primi due: spero sia stato chiaro questo passaggio della mia riflessione)? Per quale scopo ho ritenuto e ritengo che valga la pena vincere la stanchezza e la pigrizia con fedeltà asburgica? La realizzazione di un'esperienza di filosofia-in-pratica. Questa mi interessa, sia professionalmente sia umanamente, al punto che ogni prezzo (persino i due euro e cinquanta centesimi che pago come pizzo al padrone di casa per la cenetta...) mi sembra adeguato. Sarei felice che qualcuno di voi si incuriosisse sull'argomento al punto da leggere uno dei tre testi più adatti a chi voglia introdursi nella tematica (in ordine di crescente approfondimento: "Consulenza filosofica" di Davide Miccione con la Xenia di Milano; "Consulente filosofico cercasi" di Neri Pollastri con l'Apogeo di Milano; "Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni" di vari autori - tra cui io - con la Di Girolamo di Trapani). Ma, nel caso che non siate talmente interessati, vorrei evidenziare due caratteristiche di una 'pratica filosofica': mira a coinvolgere la dimensione esperienziale di chi filosofa e, perciò, può accogliere senza difficoltà anche chi è a digiuno di storia della filosofia. Come ha scritto qualcuno, fare della filosofia un "modo di essere" e, perciò, un'opportunità di saggezza per tutti. Cosa comporta tutto questo sul piano organizzativo, metodologico, effettivo? Le conseguenze sono davvero innumerevoli. Per esempio: il testo che si sceglie è così poco importante in sé che potrebbe anche essere sostituito da un film o dal racconto di un episodio di vita da parte di uno dei partecipanti alla "comunità di ricerca" che chieda di confrontarsi concettualmente (non esclusivamente, o prevalentemente, sul versante psicologico-emotivo) con gli altri membri del gruppo. Un'altra possibile conseguenza, nel caso - per noi abituale e preferito, almeno sino ad ora - che si opti per un libro, è che tutte le spiegazioni esegetiche ed interpretative (storiche, letterarie, stilistiche, contenutistiche etc.), per quanto preziose, non dovrebbero diventare prevalenti (e meno che mai esclusive). Se qualcuno di noi che insegna filosofia (come Alberto Biuso, Gianni Rigamonti o io stesso) le offre all'inizio di un ciclo per introdurre quell'autore e quell'opera, dobbiamo essergliene grati: infatti tali indicazioni sono indispensabili. E' utile, poi, che questo professionista della filosofia continui a dare informazioni 'tecniche' on demand nel corso degli altri incontri (ovviamente curando il tono delle risposte perché è facile che chi sia poco preparato su un settore disciplinare si senta un po' intimorito dall'esperto). Ma né noi professori né gli altri, a mio sommesso parere, dovremmo dimenticare che non è questa la ragione fondamentale del nostro incontrarsi. Infatti, se così fosse, si capirebbe perché capiti ogni tanto che qualcuno si lamenti di non seguire degli interventi troppo 'dotti' (anche se in assoluto non lo sono) o dichiari di essere un po' annoiato di rivedersi per la terza volta a discutere del giardino di Candido secondo Voltaire, Calvino o Sciascia. Per Bacco, chi non lo sarebbe? Se Augusto o Pietro o Gianni o Alberto o Francesco prendono spunto, invece, dal giardino di Candido per confrontarsi, con chi del gruppo desidera farlo, su che cosa è per ciascuno di loro, in prima persona, l'equilibrio fra privato e pubblico, fra contemplazione e azione, fra tempi dedicati a sé e ai propri cari e tempi dedicati alla politica mondiale...allora il livello del discorso si fa così vitale - starei per dire, ma nell'accezione più bella, così elementare - da diventare un terreno basilare (un fondamento!) davvero comune con tutti gli altri. Anche i meno preparati/interessati a disquisire su Voltaire e l'Illuminismo... Certo resta il rischio di non sapersi autocontrollare negli spazi che si occupano, ma questo è un limite tecnico che non si registra frequentemente fra noi e che, in ogni caso, può essere facilmente corretto da chi abbia (o da colui al quale viene riconosciuta dal gruppo) la funzione di moderatore. L'essenziale è altrove: mi reco alla cenetta per Voltaire, per Leopardi, per Spinoza o non invece per co-filosofare insieme ad Adriana, ad Anna, ad Armando, a Mario...? Nella prima ipotesi potrei venire quando l'opera non è troppo futile o troppo angosciante o troppo giornalistica o (mi è stato detto anche questo!) troppo 'politica' e troppo poco 'metafisica'...e restare a casa negli altri casi. Nella seconda ipotesi avrebbe senso partecipare anche se Kierkegaard o Feuerbach mi risultassero due palle enormi: tanto i loro 'testi' sono (scusatemi l'allitterazione sfruttatissima negli ambienti degli addetti ai lavori) solo dei 'pretesti'. Vorrò uscire alle 22,30 del martedì dallo studio Spalla avendo avuto l'occasione di riflettere sull'amore, sulla morte, sulla felicità, sulla giustizia...grazie al confronto anche con Platone e Marx, ma soprattutto con Salvatore ed Elisabetta. Non sono del tutto sprovveduto. Come vi ho detto ieri, la stragrande maggioranza dei miei colleghi insegnanti è in totale disaccordo su questa concezione: tentando di attuarla, mi accusano di non star facendo filosofia (ma chiacchiere da salotto, pseudo-terapia di gruppo, assistenza spirituale mascherata ...). Non ho la pretesa di pensare che questo modo 'pratico' (e meticcio) di filosofare sia l'unico degno di tal nome; tanto meno di imporlo a chi non sia d'accordo. Ho solo un desiderio (e riesporvelo è stato il motivo per cui ho approfittato della serata di 'transizione' di ieri): continuare a sperimentarlo con chi ha capito il senso della proposta e - almeno temporaneamente - vi aderisce. E sono stato felice di cogliere (a meno di non essere stato vittima di illusione acustica dovuta alla stanchezza della giornata) una totale adesione a questo taglio dei nostri appuntamenti. Grazie perciò della speranza che mi rafforzate di non finire povero e matto ed anche dei minuti dedicati alla lettura di questi appunti del "giorno dopo".
Con affetto
Augusto