mercoledì 9 luglio 2008

La gioia del non riflettere

Non mi piaceva questa pagina sul pensiero triste lasciata per ultima, forse per lungo tempo ancora. Parole incompiute, idee abbandonate lì prima di partire in fretta, per le vacanze d’estate.
E non mi piaceva l'dea che la tristezza fosse un marchio per imprimere l'umanità intera.
Ed affinché la vacanza non fosse un vuoto, ma nemmeno un pieno di ruote dentate per la mente, ho immaginato una situazione, ed ho scritto queste parole che dedico a tutti noi, ed a tutti i lettori del blog, nella speranza che possano farsi apprezzare.



Il mondo in un sospiro



L’uomo bianco era forte, aveva eserciti e canne tuonanti.
L’uomo bianco era furbo, aveva scienze e filosofie alle spalle,
e per questo si credeva sapiente.
Aveva un solo dio che portava lontano nel mondo.
Un dio che conquistava gli altri dei, e i loro fedeli.
E tutti superava, con il convincimento o con la forza.

Nella sua ultima comparsa sulla terra,
il figlio incarnato di quell’unico dio era stato ucciso
e per millenni i suoi devoti ne avevano seguito l’effigie
bevendone il sangue e a mangiandone le carni,
senza sapere il perché.

L’uomo bianco era astuto, e trattava il mondo
come uno scacchiere, muovendo sé stesso come una pedina.
A se stesso pensava: ma era mosso, e non lo sapeva.
E l’uomo bianco, varcò l’oceano grande
pensando di essere il primo.
E non volle mai scoprire che millenni prima di lui
Altri avevano già varcato altri oceani come anche quello.
Negò le evidenze, perché voleva essere il primo in ogni cosa.

L’uomo bianco era astuto, ma aveva la tristezza nel pensiero.
Perché egli non pensava, ma giocava a scacchi col mondo.
Dopo aver riflettuto a lungo, invase le terre e i villaggi.
L’uomo bianco disse al capo indiano:
“Vendimi le tue terre!”.

Il capo indiano non era furbo, non era astuto.
Non aveva eserciti né canne tuonanti.
Non aveva l’acqua di fuoco, né il raffreddore.
I maschi e le femmine del suo popolo
non avevano delle piaghe nei genitali,
e le madri non soffrivano per i figli appena nati
e non morivano di parto.

Il popolo indio non possedeva le terre, ma le abitava.
Non possedeva animali o piante, e non possedeva il fiume
che scorre possente. Non possedeva ma accarezzava.
E, sentendosi compagno di ogni forma, chiedeva il permesso
Prima di raccogliere i frutti, o di cacciare la selvaggina.
E prendeva il giusto, e mai qualcosa in più. E ringraziava. Ogni volta.

Il suo popolo aveva molti dei, e non vi era cosa o luogo
Che non avesse il suo piccolo dio, a custodia del sacro che dona la vita.
Così, la moltitudine di dei vivi e presenti ovunque,
erano corpo e braccia del dio maggiore.
E l’acqua del fiume era il limpido sangue, e il letto profondo, le sue vene.
Questa era la carne di colui che gli antichi avi raccontarono
avesse creato il mondo con un soffio verso di sé.

Per l’ultima volta l’uomo bianco ripeté al capo indiano:
“Vendimi le tue terre, ti pagherò bene!”.
Il capo indiano non era astuto, ma ascoltava con pazienza e fermezza.
Quando sentì la giusta risposta nel suo animo, il capo indiano rispose.
E la sua era sentenza, perché gli dei avrebbero reso vera
la cosa giusta, la risposta saggia che essi stessi avevano suggerito.
Il capo indiano non aveva riflettuto, aveva solo dato voce alla Voce
che da sempre è nascosta nel cuore di ogni uomo.
La risposta che l’uomo bianco aveva dimenticato, da tempo immemorabile.

“Come faccio a venderti le terre…” disse l’anziano capo
con la pipa fumante e la pelle di bisonte avvolta sulle spalle.
Parlò con lo sguardo lontano e le piume del falco
tremanti alla brezza, coronando i lunghi capelli d’argento.
“Come faccio a venderti il fiume sacro, e la collina degli dei…
Come faccio a venderti i cavalli e tutti gli animali nostri amici
che abitano questa terra che è così bella e grande.
Questa terra che confini non ha,
Perché l’orizzonte non finisce mai, e oltre ogni orizzonte
vi è una nuova vita per ogni uomo ed ogni forma.
Nuova vita per chi ha desiderio, e timore, e rispetto,
per l’uomo che ricorda che quando prende deve anche dare…
Come faccio a venderti tutte queste cose
Che sono parte di me, ed il mio popolo è parte di loro?
Il tuo oro non basterebbe, né basterebbe tutto l’oro del mondo.
Perché ciò che è vivo no può essere comprato né venduto,
Né mai posseduto da alcuno.

L’uomo bianco era furbo, e sapeva far bene i suoi conti
ma il suo cuore era pieno di rabbia e di disprezzo.
Il suo pensiero era triste perché non vedeva la luce,
né l’orizzonte, né gli dei così nascosti eppure così evidenti.
Egli conosceva solo il possesso, e per quello era andato così lontano.
E negli incubi delle sue notti egli vedeva solo il sangue,
forse perché ne aveva bevuto tanto, ed aveva mangiato troppa carne.

Passarono i giorni, i mesi e gli anni, e il senso delle stagioni fu perduto,
anche in quelle terre così lontane ed estreme.
Anche i figli del popolo dei guerrieri senz’armi
conobbe la distruzione, ed il possesso, e le malattie, e la tristezza.
La tristezza che è figlia del vuoto del pensiero.
I figli del popolo degli indio, ed i figli dell’uomo bianco dimenticarono.
Dimenticano oggi, da dove provienne l’oro che hanno in tasca.
E dimenticarono per sempre ciò che fu scritto ai piedi della collina degli dei.

“L’albero sacro è morto”,
scrisse l’ultima ragazzina con le piume in fronte.
Scavò con le dita nel fango, prima di fuggire.
E tracciò per l’ultima volta i sacri segni
che l’anziano dai capelli d’argento
le aveva un giorno insegnato.
Col cuore puro vide lontano nel tempo
scorse altri popoli ritrovare i segni
di un futuro antichissimo,
e vide il giorno in cui qualcuno
avrebbe ricominciato a leggere.
A leggere la sacra lingua
degli dei che abitano ogni cosa,
ogni luogo, ogni animale.
Ed anche ogni uomo.
Ogni uomo che conosce
la gioia del non riflettere,
la gioia del pensiero libero
che al tutto si collega,
senza catene
senza legami
ma soltanto
con un filo azzurro,
luminoso,
che oltrepassa le stelle
con il soffio
che il grande dio
espira in ogni istante
nel desiderio
di attraversarmi.