sabato 28 febbraio 2009

La morte di Ivan Il'ič

La morte di Ivan Il'ič (in russo Смерть Ивана Ильича, Smert' Ivana Ilyicha), pubblicato per la prima volta nel 1886 è un racconto di Lev Nikolaevič Tolstoj. È una delle opere più celebrate di Tolstoj, influenzata dalla crisi spirituale dell'autore, che lo porterà a convertirsi al cristianesimo. Tema centrale della storia è quello dell'uomo di fronte all'inevitabilità della morte.

Trama

In un ufficio del Tribunale di San Pietroburgo, alcuni magistrati stanno accalorandosi su un importante caso giudiziario. Uno di loro, disinteressato alla discussione, sfoglia il giornale. All'improvviso vede il necrologio di un collega, Ivan Il'ič Golovin, che tutti sapevano essere gravemente malato. Dopo una serie di ipotesi su chi potrà occupare il posto lasciato vacante e vaghi propositi di andare a visitare il defunto, i giudici tornano al loro lavoro, sotto sotto contenti di essere ancora vivi. Il giudice che aveva letto la notizia, amico di Ivan Il'ič fin dai tempi dell'Università, dopo pranzo si reca a fargli visita. L'incontro con la moglie e i figli del defunto non è particolarmente cordiale ed è più che altro la soddisfazione di un obbligo morale. Adempiutolo, il giudice si reca a casa di un collega, per giocare a carte. La storia della vita del giudice Ivan Il'ič Golovin, consigliere della Corte d'Appello di San Pietroburgo "era la più semplice, la più comune e la più terribile". Figlio di un alto funzionario del governo, "membro inutile di numerose inutili istituzioni", aveva studiato giurisprudenza e ed era diventato giudice istruttore di una remota provincia. Dopo diversi anni era riuscito ad ottenere il trasferimento nella capitale, con conseguente promozione ed aumento di stipendio. Proprio mentre sta arredando la nuova casa a San Pietroburgo, però, cade dalla scala su cui era salito per mostrare al tappezziere come fissare le tende e sbatte col fianco sulla maniglia della finestra. Sul momento sembra una cosa da nulla, ma con l'andar del tempo inizia a manifestarsi un malessere proprio in corrispondenza del punto in cui la maniglia l'aveva colpito. Il dolore cresce costantemente ed evolve in una misteriosa malattia, a cui i medici non sanno dare un nome e per cui nessuno riesce a trovare un rimedio. Ivan Il'ič si trova ben presto di fronte ad un male incurabile, ormai chiaramente in stadio terminale. Una sorda disperazione prende il protagonista, che non riesce a capire il significato della sua mortalità. Aveva sempre saputo, certo, di essere un mortale, però la concreta prospettiva di dover morire lo inquieta. Cerca di pensare ad altro, si butta nel lavoro, ma senza risultati, "lei" si riaffaccia di continuo alla sua mente. Durante la malattia, si forma l'idea che, se non avesse vissuto una vita giusta, la sofferenza e la morte avrebbero avuto un senso. Ma lui era sempre vissuto onestamente, e tutto questo non si spiegava. Inizia ad odiare i familiari, la loro pretesa che lui sia solo ammalato e non moribondo, il loro superficiale tentativo di evitare il tema della sua morte. L'unico conforto gli viene dal servo Gerasim, un ragazzo di origini contadine, l'unico a non avere paura della morte e l'unico, in definitiva, a mostrargli compassione. Ivan inizia a domandarsi se avesse, in realtà, vissuto giustamente. Negli ultimi giorni, il protagonista inizia a tracciare un confine tra la vita artificiale, sempre condotta da lui e dalla sua famiglia, dominata dall'interesse, dal timore per la morte e dall'occultamento del vero significato dell'esistenza e la vita vera, quella di Gerasim, dominata dalla compassione. Verso la fine, una "strana forza" lo colpisce al petto, al fianco, gli mozza il respiro. Ivan Il'ič si sente risucchiato nel buco nero della morte, in fondo a cui, però, scorge una luce. Scopre che la sua vita non era stata come avrebbe dovuto essere, ma a questo si poteva ancora porre rimedio. Sente che il figlio gli bacia la mano, vede la moglie in lacrime. Non li odia più, ma prova pietà per loro. Un sollievo lo pervade, mentre si accorge di non aver più paura della morte, perché la morte non c'è più, sostituita dalla luce. Esclama ad alta voce "Che gioia!". In mezzo ad un respiro, Ivan muore.
Interpretazioni

Il racconto è stato scritto poco dopo la conversione dell'autore. In effetti nella vicenda sono presenti diverse tematiche religiose, come la luce in fondo al buio. Il cristianesimo di Tolstoj era incentrato sulla figura di Cristo e l'esempio evangelico, più che sull'adesione ad una chiesa istituzionalizzata ed ai suoi riti. Ne è esempio anche un episodio dell'agonia di Ivan Il'ič. Pochi giorni prima di morire, questi si confessa e si comunica su insistenza della moglie. Se all'inizio il rito sembra ridargli la speranza, le parole della moglie, sicura del fatto che ora si sentisse meglio, lo fanno ripiombare ben presto nella disperazione. Nel racconto non c'è poi alcuna indicazione di una vita oltre la morte. Alcuni vedono nella fine del racconto il dono della fine della sofferenza. Per un'altra interpretazione la conquista di Ivan Il'ič consiste nella libertà data dalla verità ossia, nel suo caso, l'aver preso consapevolezza della falsità della sua vita, cosa che gli consente di vivere un momento di amore disinteressato e di provare compassione per la moglie e il figlio.

domenica 15 febbraio 2009

sul testamento biologico in discussione in Parlamento


Quì di seguito ho scelto e parafrasato (forse molto?) alcuni concetti che Vito Mancuso ha riportato in un suo articolo venerdì 13 febbraio su “La Repubblica”)..... a me queste frasi sembrano interessanti e a voi?
Armando
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Se il cristiano cattolico pensa che la vita è un dono di Dio, come può poi aspettarsi che Dio decida che uso si debba fare del dono……….. non sarebbe un dono ma una concessione in comodato !?!?

L’autodeterminazione è legittimata dal concetto di libertà , mai da quello dell’obbedienza.

Solo la libertà può generare amore, mai l’obbedienza.

La Chiesa (e di conseguenza gli atei devoti) vuole dirci come agire non tenendo conto che il buon cristiano, secondo i Vangeli canonici e non, dovrebbe agire secondo coscienza!

Una società laica e democratica su certi argomenti dovrebbe decidere rispettando tutte le morali in proposito!

martedì 3 febbraio 2009

Il caso Englaro

In attesa che Socrate (il consulente filosofico arrestato ad Atene) venga liberato, sia pur su cauzione, provo a ravvivare l'interesse per questo Blog , chiosando un pò sul caso Englaro. Perchè una vicenda così intima , straziente e privata è diventata un polpettone mediatico così esteso nei media ? Non sarebbe una vicenda cui può partecipare di diritto e principalmente chi la vive in prima persona ? ( escludo Eluana perchè non è più in grado di partecipare)- ma certamente è giusto che esprima un parere decisivo chi vive la vicenda da dentro e quindi la famiglia. A che titolo io o tu possiamo esprimere un parere decisivo ? A questa prima domanda una parziale risposta può darsi a favore solo di un parere espresso anche da chi gestisce il Servizio Sanitario Nazionale, dagli operatori coinvolti sino al Ministro del Welfare. Questo perchè occorre una struttura sanitaria per porre fine ai giorni di vita di Eluana. E' giusto allora che anche chi sia coinvolto per ragioni professionali dia un proprio parere in quanto parte in causa sia pur per ragioni professionali. Si pone allora lo spinoso problema se staccare la spina di apparecchiature complesse quali sono quelle dei reparti di rianimazione sia etico oppure no. A mio modesto avviso per pronunziarsi sugli aspetti etici di questa operazione ( il distacco della energia elettrica dall'apparecchio tipo polmone di acciaio ) non pone problemi bioetici qualora sia venuta meno ciò che gli antichi trattati di medicina legale definivano "vita". Tali trattati , che non cito per non appesantire l'intervento, definivano il fenomeno vita come caratterizzato dalla persistenza del cd. " tripode vitale " , cioè della triade formata dal battito cardiaco, dagli atti della respirazione e dalla coscienza. Il caso di Eluana si complica perchè persistono (artificialmente) battito e respiro, in assenza di coscienza. Ma per capire che staccare la spina in questo caso non è eutanasia , ma solo il por fine ad una sorta di luciferino accanimento terapeutico, basta osservare che se non ci fossero le complicate macchine moderne , Eluana potrebbe (teoricamente ) sopravvivere solo se un ipotetico rianimatore instancabile stesse per anni ed anni di seguito a manovrare con l'Ambu.
Per chi non lo sapesse l'Ambu è quella sorta di pallone ovalare che i rianimatori usano per "ventilare" il paziente che ha difficoltà respiratorie. Praticamente la medicina è vittima dei suoi progressi ed avendo trovato un Ambu meccanico ed artificiale si pone il falso problema se sia giusto cessare di farlo funzionare quando il/la paziente non "si risveglia " più . Non ci vuole molto a capire che dopo un ragionevole lasso di tempo, che si può anche definire , che può essere anche di alcuni giorni, di fronte ad un elettroencefalogramma piatto non ha più alcun senso mantenere in vita una persona "artificialmente". Oltretutto l'apparente atto di bontà o pietas nei confronti del paziente che si vuol rianimare ma non si risveglia , costa energie e risorse strappate ingiustamente a tanti altri pazienti che potrebbero salvarsi e che non trovano posto in rianimazione . E chi lavora nel campo ospedaliero sa quante volte ciò accade. Quindi per me il caso Englaro non è un caso di eutanasia , ma di accanimento terapeutico.
Altra cosa è tuttavia il caso di chi vive una vita di sofferenze e privazioni e opti per l'eutanasia. Anche qui c'è una sofferenza intensa e che tocca per primo chi la vive, ( vedi ad es. il caso Welby ), ma non può dirsi che sia già cessata la vita del soggetto che la vive tra tante difficoltà. Quindi interrompere l'alimentazione elettrica ad apparecchiature particolari di supporto non rappresenta in questo caso un cessare l'accanimento terapeutico, ma una opzione nei confronti dell'eutanasia. Cosa fare in questi casi ? Chi decide ? Chi ha diritto a parlare ? Anche qui la prima parola va data a chi vive il problema e del resto tutta la legislazione sul c.d. "consenso informato" va in questo senso. Faccio un esempio chiarificatore : se un paziente oncologico viene posto di fronte alla scelta chemioterapia si o no , e rifiuta fa una scelta eutanasica ? Credo proprio di no perchè di fronte ad un male ineluttabile si può decidere di non soffrire ulteriormente con cure che alla fin fine possono essere solo palliative. Gli altri operatori che hanno diritto di parola sono di nuovo gli operatori sanitari che obtorto collo possono essere chiamati in causa ad operare in un senso o nell'altro. La mia considerazione è questa : vista la pluralità di pareri dello stato laico e di tutti, si dovrebbe dare la possibilità di astenersi a quegli operatori che non vogliono comunque partecipare ad un atto " terminale " di fine della vita , permettendogli l'obiezione di coscienza. Altresì la c.d eutanasia dovrebbe permettersi solo quando condizioni di vita oramai solamente artificiali non possono più permettere una ripresa autonoma del tripode vitale. Ma tale possibilità dovrebbe comunque prevedere anche la scelta di vivere di chi si trova in condizioni simili. Faccio un esempio : ci sono pazienti che da decenni vivono dentro un polmone di acciaio perchè autonomamente non respirerebbero più. Sono anche coscienti. Vogliono continuare a vivere . Chi ha il coraggio di dirgli che devono morire ? Nella stessa condizione ci può essere chi come Welby non ne può più . Chi può dargli torto ? Uno stato laico e di tutti, deve tener conto di tali diversità di vedute e non può imporre visioni del mondo ad alcuno, nè in un senso nè nell'altro, sia pur lasciando al dialogo ed al dibattito la possibilità a tutti di esprimersi.
Alberto Spatola

domenica 1 febbraio 2009

Arrestato e condannato a morte un consulente filosofico ad Atene

Da notizie di agenzia risulta che stamane hanno arrestato ad Atene uno dei primi e storici consulenti della pratica filosofica. Da quel che se ne sa, i maggiorenti della città lo accusano di corrompere con nuove dottrine i giovani , "sviandoli" dal vero culto alle divinità locali. Strenuo sostenitore di una spiritualità laica e dell'idea di Giustizia , è spalleggiato solo da un gruppo di intellettuali, ma la maggioranza della popolazione sembra non capirlo ed essergli contraria. La cosa strana, in tempi come i nostri, è che non sembra aver chiesto alcun compenso per l'esercizio della pratica stessa , e pare che gli bastasse che i consultanti gli facessero dono di qualche cibarie per sopravvivere! Il reo o presunto tale rischia (incredibile ma vero) la condanna a morte , con un mezzo molto antiquato ,pare una sorta di cicuta. Cosa si può fare per aiutarlo !? Forse discuterne per capire meglio che cosa è questa benedetta pratica filosofica che svia i giovani. Oppure cercare di entrare in contatto con lui attraverso qualche scritto recente.....per ben capire.
Ciao a tutti Alberto