mercoledì 24 dicembre 2008

Un Blog un pò disabitato

Ormai il Blog è desueto , pochi lo visitano ancor più pochi lasciano traccia con uno scritto. Eppure questo Blog ha conosciuto periodi di dialoghi frizzanti e ricchi di pathos !!! A tutti gli amici filosofi e non Auguri di Buon Natale. Alberto Spatola

giovedì 18 dicembre 2008

Il Processo e la Scelta

L'imputato Armando ha accettato con socratica dignità il processo a cui è stato sottoposto per l'ingiusta accusa di averci afflitto con la "tristezza del pensiero" di Steiner, libro da lui entusiasticamente ed incautamente sponsorizzato.
L'accusa è stata affidata a Maria D'Asaro che ha sottolineato la pretenziosità del libro che dice in modo elegante delle cose risapute e, in alcuni casi, contiene affermazioni false e pericolose come quella che il pensiero "non fa accadere nulla se non se stesso". "Ma cosa sono, allora - ha chiesto indignata Maria - Auschwitz ad Armando se non il prodotto ben concreto di un pensiero per nulla sterile ma capace di diffondersi ed incarnarsi? Maria ha concluso proponendo per Armando una pena corporale a caso che abbia il risultato di inibirne definitivamente le facoltà riproduttive.
Augusto ha, poi, rincarato la dose accusando Armando di avere spacciato il ibro per un testo filosofico mentre il metodo di Steiner, che declama senza argomentare, è oracolare e predicatorio, per nulla filosofico. Augusto ha, quindi, proposto di condannare Armando a leggere il suo ultimo libro: "In verità ci disse altro" ed. Falzea.
Assumendo la difesa di Armando io ho subito eccepito alla spietata richiesta punitiva di Augusto, dicendo che, per l'art. 27 della nostra Costituzione, le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e che sarebbe stata, se mai, più adeguata la pena corporale adombrata da Maria. Ho, quindi, lamentato il clima di caccia al mostro che aleggia nel processo e ci impedisce di considerare le attenuanti del caso, tantopiù che alcuni passi del libro sono folgoranti, come quando Steiner scrive che "la Cacciata dall'EDEN è una caduta nel pensiero": bellissima intuizione, qualunque cosa significhi!
Atterrito dalle punizioni prospettate, Armando mi ha immediatamente revocato il mandato ed ha spudoratamente ritrattato: "non è vero che il libro di Steiner è stata una tappa fondamentale della mia evoluzione, come ha sostenuto Pietro pensando di giovare alla mia difesa. Io ho subito capito che il libro è una boiata pazzesca e l'ho proposto solo per vedere se ve ne accorgevate anche voi. Complimenti, ve ne siete accorti subito.... "
I cenacolanti hanno, allora, deciso di assolvere Armando con formula molto ma molto dubitativa.....
Giunto il momento di scegliere il nuovo testo per le nostre cenette, un inquietante silenzio è sceso tra di noi e nessuno ha osato farsi avanti per proporre un testo, lamentando chi un'improvvisa indisposizione chi motivi familiari. Finalmente un cenacolante-delatore, indicando Marcella Aletti, ha alleviato la tensione degli altri dicendo: "ricordo che Marcella aveva proposto di commentare l'utopia di Tommaso Moro..." Marcella, presa in castagna, ha tentato di svicolare: "non è vero, o meglio, diciamo che ho cambiato idea perchè noi di "Addio Pizzo" abbiamo appena scoperto che Tommaso Moro ha pagato il pizzo all'editore per ottenere la pubblicazione della sua Utopia. Al massimo - ha concesso - potrei proporre di leggere il titolo, ma solo come pretesto perchè ognuno possa parlare delle proprie speranze ed utopie sul mondo: la mia utopia, ad esempio, è un mondo senza pizzi e libri di testo" e indicando i resti della cenetta apppena consumata ha aggiunto: " sì, un mondo con la pizza invece del pizzo: perchè nelle nostre cenette filosofiche non ci concentriamo sulla pizza e su ciò che di filosofico possono evocare in noi le sue diverse declinazioni (quattrogusti, rustica, margherita.....)"?
Adriana ha subito approvato: "la cosa più importante è non vincolarci ad un testo: noi, nelle cenette simil-filosofiche di casa mia del mercoledì, siamo rimasti incartati da quattro anni con "il mondo di Sofia" e dopo tutto questo tempo nemmeno ci ricordiamo più chi l'ha proposto; non sappiamo, insomma, con chi prendercela e come uscirne, nè osiamo cambiare testo per paura che ce ne capiti uno ancora più devastante. Il nostro motto di filosofia pratica è, infatti: megghiu u tintu cunusciutu ca u bonu a canusciri".
Dopo che è stata respinta la proposta di scegliere il testo con la tecnica dei bussolotti perchè Armando non ha accettato di farsi bendare per l'estrazione (nonostante l'assoluzione non mi fidavo, mi ha poi confidato, di restare bendato e al buio in mezzo a Voi ...) e quando sembrava che stessimo ormai accettando la riduttiva proposta di "filosofia pratica" di Alberto Spatola di continuare a riunirci solo per parlare del più e del meno, è giunta la coraggiosa proposta di Augusto: "se filosofia pratica dev'essere che lo sia sino in fondo! Sono uno dei coautori del libro: "Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni" edito dalla Di Girolamo di Trapani. Non ho paura di proporlo per le nostre cenette dato che, dopo questo ed altri miei libri del genere, sono stato quasi radiato dalla comunità dei filosofi per avere degradato la filosofia dalle vette delle altisssime speculazioni sull'Essere e sulla Morale a cui era arrivata con Heidegger e Kant ad una filosofia da marciapiede, in cui il primo che passa pretende di fare filosofia a partire dall'ultima delusione del Palermo in campionato o dai propri problemi familiari e di prostata; ormai - ha concluso Augusto - non ho più nulla da perdere, nemmeno la faccia, figuriamoci se mi posso preoccupare per le Vostre possibili critiche al libro..".
Abbiamo, quindi, adottato il testo di Augusto, che inizieremo a commentare martedì 13 gennaio 2009 con l'introduzione e con il secondo capitolo (saltando il primo) che contiene un contributo di Neri Pollastri intitolato: filosofia, nient'altro che filosofia.
Buon Natale e buon anno nuovo a tutti
Pietro Spalla

martedì 16 dicembre 2008


Vi aspetto nel mio studio domani per concludere il commento del libro di Steiner sulla "tristezza del pensiero." Vi ricordo, però, che questa volta sarà presente l'autore (pardon, il fautore), ossia Armando Caccamo, per il quale il libro ha rapppresentato una tappa assolutamente importante della sua evoluzione intellettuale.
Prego pertanto tutti coloro che hanno bassamente approfittato, la volta scorsa, dell'assenza di Armando per demolire il libro di essere questa volta più diplomatici. Spero, in particolare, che Micciancio (per delicatezza non ne faccio il nome) non riproponga la sua sconcertante e assurda tesi secondo la quale quello che fa davvero tristezza è il pensiero che questo libro sia stato pubblicato e ristampato).
Ciao Pietro

mercoledì 26 novembre 2008

Invito per le 18.15 del 1 dicembre 2008

Lunedì 1 dicembre 2008 alle ore 18.15
Salone del Centro studi "Bonelli"

(presso la Chiesa valdese di via Spezio,
all'angolo con la via Emerico Amari,
alle spalle del teatro Politeama)

incontro pubblico sul tema


Ci si può ancora dire cristiani?



a partire dal volume di Augusto Cavadi

In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani

(Falzea, Reggio Calabria 2008)

Il dibattito sarà introdotto e moderato da Franco Micela.
Interventi previsti:

Francesca Piazza (filosofa)
Elisabetta Ribet (teologa valdese)

sabato 22 novembre 2008

La triste gioia del pensiero adulto

Cari cenacolanti,
martedì scorso Armando ha cercato di contagiarci con la sua travolgente passione per il nuovo testo che, su sua proposta, abbiamo adottato per le nostre esercitazioni di filosofia pratica: "dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero", di George Steiner.
Grazie al nostro ormai pluriennale allenamento, siamo riusciti a resistere alla tentazione di farci trasportare troppo acriticamente dall'onda delle riflessioni di Steiner. Per esempio, ha felicemente osservato Rosario sul primo capitolo: "e se io provo gioia invece che la tristezza di Steiner constatando che il pensiero non sa darmi risposte definitive"? Ed in effetti sembra che Steiner sottovaluti la gioia che il pensiero può dare per il solo fatto di mettersi - insieme al sentimento e alla volontà, direbbe Augusto - alla ricerca della Verità riuscendo a resistere ad infantili pretese di comodi, semplicistici e definitivi approdi.
La tentazione di un pensiero semplificante è tanta, perchè il pensiero è una creatura viva da poco uscita dalle nebbie dell'indifferenziazione in cui era immersa ed ha avuto appena il tempo di guardarsi attorno: non dovremmo dargli il tempo di crescere e maturare prima di lamentarci dei suoi limiti?
Invece risuono anch'io quando, nelle prime pagine del testo Steiner, evocando Schelling, accenna ad un'inevitabile tristezza di fondo che ci accompagna, che assimila al "rumore di fondo" che permea l'Universo dopo la sua nascita, come residuo arcaico del Big Bang.
Ma questa è una tristezza che accompagna ogni processo di crescita, come una sorta di nostalgia per un'unione perduta che ci proteggeva ma ci lasciava anche dipendenti come bambini. E purtroppo solo i bambini piccoli possono pensare magicamente il mondo, che sentono animato ed unito al proprio mondo interiore. Noi adulti, invece, perduta quell'unità originaria, vediamo il mondo di fronte a noi come un estraneo e abbiamo bisogno di capirne il senso: che compito per un pensiero così giovane, naturalmente ancora preda di suggestioni infantili!
Martedì due dicembre commenteremo i primi cinque capitoli e le prime cinque ragioni steineriane della tristezza del pensiero, sperando di demolirle tutte
Pietro Spalla

mercoledì 12 novembre 2008

La ragioni della tristezza del pensiero

Cari filosofi pratici
l'ultima cenetta è stata un po' una sorta di "messa a punto" degli scopi e sulla funzione dei nostri cenacoli.
Il dibattito è stato molto utile ed è stato bello giungere ad una conclusione condivisa (che è poi quella proposta da Augusto): il testo scelto è solo un pretesto per mettere in gioco noi e le nostre visioni della vita, per imparare ad esercitare il pensiero critico.
Per questo esercizio di filosofia pratica, ha spiegato opportunamente Augusto, andrebbero forse bene anche un film o un brano musicale, che potrebbero suscitare, allo stesso modo di un testo di filosofia, risonanze e riflessioni personali da condividere con gli altri.
Si tratta, anche (a mio parere) di imparare ad ascoltare e a dare spazio agli altri: ricordo un articolo in cui che Umberto Eco rimproverava agli italiani di non essere abituati ai "turni di conversazione": anche se noi, in questo, siamo messi molto meglio di tanti altri, non è male se ogni tanto anche noi ci ricordiamo che il nostro scopo è mettere in comune le nostre piccole realizzazioni personali senza alcun intento di convincere gli altri.
Per chudere con il testo di Voltaire e collegarci, nello stesso tempo, a queste riflessioni sul senso dei nostri iincontri, secondo me è stata utile la lezione che ci è venuta da Candido, che non era abituato a pensare criticamente ma aveva bisogno di prendere in prestito le idee di altri che considerava maestri. Ha imparato, dopo tante vicissitudini, che quello che conta è che il pensiero sia veramente "proprio" e questo è, a mio avviso, il senso della sua scoperta finale quando conclude che è importante imparare a "coltivare il proprio giardino", dove può - faticosamente - fiorire l'individualità e l'unicità di ciascuno.
Quando Candido parlava, scrive Voltaire, aveva il cuore sulle labbra. Però non sapeva elaborare un pensiero personale e indipendente.
Poi ha imparato anche questo.
E allora: non vi sembra che il cammino compiuto da Candido è stato - in effetti - lo stesso cammino di filosofia pratica che ci propone Augusto e che noi ci ripromettiamo di compiere attraverso le nostre cenette?
Forse Candido avrebbe imparato prima ad armonizzare le componenti affettive e razionali della la propria individualità se avesse ascoltato Augusto quando, martedì scorso, ci ha incoraggiato a superare questa (recente) separazione tra cuore e pensiero che contraddistingue gli uomini del nostro tempo. Che culo: per noi non sarà necessario attraversare tutte le peripezie di Candido per giungere a questo risultato, dato che abbiamo la fortuna di avere la palestra delle nostre insostituibili cenette filosofiche.
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Il prossimo Martedì ci faremo interrogare dalle prime pagine del nuovo testo che abbiamo adottato su proposta di Armando: "Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero", edizioni Garzanti, Autore G. Steiner.
Nonostante il titolo, Armando ci assicura, sotto la propia responsabiilità, che il libro non ci farà cambiare idea su tutto quello che abbiamo appena finito di dire sulla bellezza del pensiero.
Speriamo: ascolteremo con vivo interesse (e un po' di apprensione) la relazione di apertura di Armando, curiosi di capire come può incoraggiarci a pensare un testo che si presenta con questo (filosoficamente raggelante) titolo.
Pietro Spalla

martedì 11 novembre 2008

io, il pensiero, Pascal e......Steiner


Cari cenacolanti del martedì (uno si e l’altro no),

invitato dal gruppo a presentare martedì 18 novembre il volume da me proposto come prossima lettura: “Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero” di G. Steiner – ed. Garzanti, ho deciso di condividere con voi prima dell’incontro la (possibile) ragione per la quale ho sentito il bisogno di confrontarmi alle cenette sui contenuti del breve saggio in questione.
Dell’Autore e del testo vi parlerò martedì 18, oggi mi propongo di raccontarvi alcuni frammenti autobiografici: Studente universitario in Chimica pura (indirizzo chimico-fisico) più di quaranta anni fa, non mi accontentavo di pensare che la realtà fosse solo frutto dei risultati di teorie matematico-fisiche pensate razionalmente e verificabili sperimentalmente ma che potesse essere il risultato anche di percorsi che derivavano non da processi del pensiero razionale ma anche dall’irrazionale. Lo studio della fisica relativistica prima e della fisica quantistica poi mi confortavano in questa mia tesi, condivisa peraltro da molti, e la biografia di alcuni scienziati protagonisti delle scoperte cosmologiche e di fisica delle particelle lo confermavano (da Enstein a Pauli e Heisemberg e a molti altri) come pure alcuni miei approcci (molto dilettantistici) alla psicologia analitica (Jung e i suoi archetipi in particolare).
Ecco che fui “intercettato” da Blaise Pascal e dai suoi “Pensieri” ; chi era Pascal lo sapete tutti: un grande scienziato vissuto nel XVII secolo che raccontò nei suoi “pensieri” la sua grande conversione filosofica e religiosa. Vi trascrivo alcuni passi:

“L’uomo non è che una canna, la più debole della natura ma è una canna pensante………un vapore, una goccia d’acqua basterebbe a distruggerlo e anche se ciò avvenisse l’uomo sarebbe ancora più grande rispetto all’Universo perché sa di morire e conosce la superiorità dell’Universo su di lui; l’Universo invece non ne sa nulla………. Tutta la nostra dignità quindi consiste nel pensiero!.......... .l’Universo mi circonda e mi inghiottisce come un punto; mediante il pensiero, io lo comprendo.”

E ancora,

“Conosciamo la verità non solo con la ragione ma anche col cuore ed è in questo secondo modo che conosciamo i primi principi e inutilmente il ragionamento, che non vi ha parte, s’industria a combatterli……… infatti la conoscenza dei primi principi è più solida di qualunque altra che ci viene dal ragionamento…. I PRINCIPI SI SENTONO, LE PROPOSIZIONI SI DEDUCONO (il maiuscolo è mio!) ed è inutile e ridicolo che la ragione chieda al cuore di dare prove dei primi principi quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni. Anzi volesse il cielo che non avessimo mai bisogno della ragione e conoscessimo tutto per istinto e per sentimento! Ma la natura ci ha negato questo dono anzi ci ha concesso pochissime conoscenze di questa specie; tutte le altre non si possono acquistare che col ragionamento!”

mi soffermo spesso sul significato di pensiero e quando mi imbattei su Steiner………………..

mi fermo qui, vi ringrazio e……..alla prossima puntata! (martedì 18)……a proposito non ho mai lasciato questo percorso intellettuale cominciato quaranta anni fa e per dirla con un grande giornalista laico del passato : “quaesivi et non inveni”

Armando Caccamo

giovedì 6 novembre 2008

Dal testo alla vita (titolo redazionale) di Augusto Cavadi

Care amiche, cari amici,
a giudicare dalla quantità e dalla qualità (sotto il profilo non solo tecnico, ma anche dell'autenticità esistenziale) degli interventi di ieri sera, non solo non sono 'pentito' di aver sollevato la questione, ma anzi ritengo che dovremmo aiutarci tutti quanti a fare, almeno una volta ogni inizio di anno sociale, una 'messa a punto' collettiva di ciò che siamo e di ciò che intendiamo perseguire insieme. Poiché so benissimo che in questi ambiti le riflessioni non si chiudono mai, e tutti abbiamo da 'ruminare' certe idee forti per assimilarle e rielaborarle creativamente, mi limito a qualche evidenziazione di ciò che mi è sembrato emergere in maniera unanimamente condivisa. Ciò allo scopo di informare - senza volermi sostituire né all'ottimo Pietro né ai frequentatori assidui del nostro blog - gli assenti e, soprattutto, di verificare con chi c'era se ho capito bene o se mi sto illudendo sull'unanimità di questo consenso. Quando Pietro ed Anna, Francesco Palazzo, Giovanni La Fiura, Adriana ed io abbiamo attivato questi appuntamenti quindicinali - estendendo da subito l'invito ad amiche ed amici interessati - eravamo certamente mossi dal piacere di dare un ritmo alla nostra amicizia: in questo le cenette filosofiche hanno raggiunto splendidamente il loro obiettivo, consentendo a molti di noi di non perdere il filo minimale della relazione (come invece purtroppo capita con altri amici con cui, non avendo scadenze periodiche, si finisce col differire gli incontri e con il vedersi due o tre volte all'anno). L'ingresso (su invito personalizzato) di nuove persone che si sono avvicinate perché attratte dalla denominazione "filosofia" è avvenuto, ovviamente, senza particolari filtri né iniziazioni. Ciascuno è entrato nel giro, e - se è tornato - ci è rimasto, perché ha avvertito un secondo obiettivo (oltre l'aria di accoglienza e di cordiale allegria che per fortuna si è instaurata sin dall'inizio e che non è stata apprezzata solo da alcune personalità un po' troppo seriose e permalose): la crescita intellettuale. Leggere testi filosofici è un alimento culturale prezioso anche per chi non fa il filosofo di mestiere: se poi ciò può avvenire con il soccorso di alcuni professori di filosofia e con la possibilità di confrontare le proprie interpretazioni con altri lettori, che cosa chiedere di più dalla vita (se non un "Amaro Lucano")? Ciò che ho voluto mettere in evidenza è che questo secondo obiettivo non è né l'unico né il principale, almeno secondo la mens di noi promotori. Se così fosse, le cenette sarebbero piuttosto dei "seminari di storia della filosofia" e ognuno di noi dovrebbe decidere se gli interessano (la vita di chi come me insegna queste cose è talmente fitta di impegni lavorativi dello stesso genere che la sera del martedì preferirei davvero stravaccarmi sul divano e vedermi la Tv accarezzando con una mano la mogliettina e con l'altra la gattina: in ordine decrescente di affezione). Qualora mi dovessi sobbarcare a questa prestazione professionale, preferirei rimandarla al 2011 (quando dovrei essere in quiescienza dalla scuola) e, soprattutto, riterrei opportuno prepararmi meglio didatticamente: se nelle mie classi si dovesse verificare un tasso di partecipazione 'percepibile' simile a quello delle nostre cenette, lo riterrei francamente un mio fallimento. Ritengo mio dovere inderogabile portare tutti a esprimersi in pubblico: tutti, "non uno di meno". Ancor meno, sei o sette di meno. Ma allora quale sarebbe il terzo obiettivo (non in alternativa ai primi due: spero sia stato chiaro questo passaggio della mia riflessione)? Per quale scopo ho ritenuto e ritengo che valga la pena vincere la stanchezza e la pigrizia con fedeltà asburgica? La realizzazione di un'esperienza di filosofia-in-pratica. Questa mi interessa, sia professionalmente sia umanamente, al punto che ogni prezzo (persino i due euro e cinquanta centesimi che pago come pizzo al padrone di casa per la cenetta...) mi sembra adeguato. Sarei felice che qualcuno di voi si incuriosisse sull'argomento al punto da leggere uno dei tre testi più adatti a chi voglia introdursi nella tematica (in ordine di crescente approfondimento: "Consulenza filosofica" di Davide Miccione con la Xenia di Milano; "Consulente filosofico cercasi" di Neri Pollastri con l'Apogeo di Milano; "Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni" di vari autori - tra cui io - con la Di Girolamo di Trapani). Ma, nel caso che non siate talmente interessati, vorrei evidenziare due caratteristiche di una 'pratica filosofica': mira a coinvolgere la dimensione esperienziale di chi filosofa e, perciò, può accogliere senza difficoltà anche chi è a digiuno di storia della filosofia. Come ha scritto qualcuno, fare della filosofia un "modo di essere" e, perciò, un'opportunità di saggezza per tutti. Cosa comporta tutto questo sul piano organizzativo, metodologico, effettivo? Le conseguenze sono davvero innumerevoli. Per esempio: il testo che si sceglie è così poco importante in sé che potrebbe anche essere sostituito da un film o dal racconto di un episodio di vita da parte di uno dei partecipanti alla "comunità di ricerca" che chieda di confrontarsi concettualmente (non esclusivamente, o prevalentemente, sul versante psicologico-emotivo) con gli altri membri del gruppo. Un'altra possibile conseguenza, nel caso - per noi abituale e preferito, almeno sino ad ora - che si opti per un libro, è che tutte le spiegazioni esegetiche ed interpretative (storiche, letterarie, stilistiche, contenutistiche etc.), per quanto preziose, non dovrebbero diventare prevalenti (e meno che mai esclusive). Se qualcuno di noi che insegna filosofia (come Alberto Biuso, Gianni Rigamonti o io stesso) le offre all'inizio di un ciclo per introdurre quell'autore e quell'opera, dobbiamo essergliene grati: infatti tali indicazioni sono indispensabili. E' utile, poi, che questo professionista della filosofia continui a dare informazioni 'tecniche' on demand nel corso degli altri incontri (ovviamente curando il tono delle risposte perché è facile che chi sia poco preparato su un settore disciplinare si senta un po' intimorito dall'esperto). Ma né noi professori né gli altri, a mio sommesso parere, dovremmo dimenticare che non è questa la ragione fondamentale del nostro incontrarsi. Infatti, se così fosse, si capirebbe perché capiti ogni tanto che qualcuno si lamenti di non seguire degli interventi troppo 'dotti' (anche se in assoluto non lo sono) o dichiari di essere un po' annoiato di rivedersi per la terza volta a discutere del giardino di Candido secondo Voltaire, Calvino o Sciascia. Per Bacco, chi non lo sarebbe? Se Augusto o Pietro o Gianni o Alberto o Francesco prendono spunto, invece, dal giardino di Candido per confrontarsi, con chi del gruppo desidera farlo, su che cosa è per ciascuno di loro, in prima persona, l'equilibrio fra privato e pubblico, fra contemplazione e azione, fra tempi dedicati a sé e ai propri cari e tempi dedicati alla politica mondiale...allora il livello del discorso si fa così vitale - starei per dire, ma nell'accezione più bella, così elementare - da diventare un terreno basilare (un fondamento!) davvero comune con tutti gli altri. Anche i meno preparati/interessati a disquisire su Voltaire e l'Illuminismo... Certo resta il rischio di non sapersi autocontrollare negli spazi che si occupano, ma questo è un limite tecnico che non si registra frequentemente fra noi e che, in ogni caso, può essere facilmente corretto da chi abbia (o da colui al quale viene riconosciuta dal gruppo) la funzione di moderatore. L'essenziale è altrove: mi reco alla cenetta per Voltaire, per Leopardi, per Spinoza o non invece per co-filosofare insieme ad Adriana, ad Anna, ad Armando, a Mario...? Nella prima ipotesi potrei venire quando l'opera non è troppo futile o troppo angosciante o troppo giornalistica o (mi è stato detto anche questo!) troppo 'politica' e troppo poco 'metafisica'...e restare a casa negli altri casi. Nella seconda ipotesi avrebbe senso partecipare anche se Kierkegaard o Feuerbach mi risultassero due palle enormi: tanto i loro 'testi' sono (scusatemi l'allitterazione sfruttatissima negli ambienti degli addetti ai lavori) solo dei 'pretesti'. Vorrò uscire alle 22,30 del martedì dallo studio Spalla avendo avuto l'occasione di riflettere sull'amore, sulla morte, sulla felicità, sulla giustizia...grazie al confronto anche con Platone e Marx, ma soprattutto con Salvatore ed Elisabetta. Non sono del tutto sprovveduto. Come vi ho detto ieri, la stragrande maggioranza dei miei colleghi insegnanti è in totale disaccordo su questa concezione: tentando di attuarla, mi accusano di non star facendo filosofia (ma chiacchiere da salotto, pseudo-terapia di gruppo, assistenza spirituale mascherata ...). Non ho la pretesa di pensare che questo modo 'pratico' (e meticcio) di filosofare sia l'unico degno di tal nome; tanto meno di imporlo a chi non sia d'accordo. Ho solo un desiderio (e riesporvelo è stato il motivo per cui ho approfittato della serata di 'transizione' di ieri): continuare a sperimentarlo con chi ha capito il senso della proposta e - almeno temporaneamente - vi aderisce. E sono stato felice di cogliere (a meno di non essere stato vittima di illusione acustica dovuta alla stanchezza della giornata) una totale adesione a questo taglio dei nostri appuntamenti. Grazie perciò della speranza che mi rafforzate di non finire povero e matto ed anche dei minuti dedicati alla lettura di questi appunti del "giorno dopo".
Con affetto
Augusto

mercoledì 22 ottobre 2008

Perchè mi piace Voltaire



Cari amici filosofi e "filosofanti" , stimolato dalla mail di Armando, vorrei provare ulteriormente a spiegare perchè la lettura del "Candide" mi sta davvero appassionando, dopo tanti anni dalla prima frettolosa lettura,effettuata negli anni del liceo. Per prima cosa rilevo che il Candido-Voltaire si confronta con personaggi vari e molteplici, che, ognuno a modo suo, impersonano pensieri e filosofie diverse riguardo alla vita. C'è Pangloss, che spicca inizialmente su tutti gli altri, perchè rappresenta il pensare filosofico "antico", "sistematico", "forte" all'apparenza, ma sostanzialemente debole. Pangloss non rappresenta solamente il pensiero di Leibniz, e la sua teoria sul migliore dei mondi possibili, ma è in qualche modo il garante della possibilità di un pensiero "metafisico". Tutto ciò che accade a questo mondo, anche le incredibili avventure di "Candide", possono avere per Pangloss (ma Pangloss simboleggia Leibniz, tutti i metafisici, gli uomini di chiesa alla San Tommaso etc . etc. ) una giustificazione ed alla fin fine possomno esitare in un inno di lode a Dio. Pangloss giustifica tutto. Con molta eleganza e direi "delicatezza", Voltaire-Candide non aggredisce la posizione ed il giustificazionismo di Pangloss, ma presenta semplicemente i fatti di vita, le mirabolanti storie del suo eroe Candide. E così facendo, senza stancare il lettore, fa capire che la posizione di Pangloss è quasi insostenibile. Sono tali e tante le disgrazie e le sventure del protagonista, che giustapporre una spiegazione metafisica, come tenta di fare Pangloss, appare davvero un tentativo senza speranza.

A questo punto Voltaire, vero filosofo moderno, opera una svolta copernicana nella storia della filosofia: grazie al suo romanzo filosofico, narra i fatti della vita, fa parlare l'esistenza e la storia del quotidiano, dice come stanno le cose. Ecco dunque una prima differenza fondamentale tra il pensare dei filosofi della classicità ( primo tra tutti Aristotele, sino ad Hegel , etc. etc. ) , ed i filosofi legati alla storia di vita, al contesto, alla esistenza. Candido-Voltaire non dice che Pangloss "ha torto", ma in modo problematico evidenzia la singolarità dei fatti dell'esistenza, nella loro crudezza così diversi dal giustificazionismo leibniziano. Sottolineo che la "critica" volteriana al modo leibniziano di fare filosofia, è di un rispetto e di una ammirazione tali ( certo mista ad elegante ironia ovviamente), che costituisce già di per sè un "caposaldo" etico, sui modi del filosofare. Ma Voltaire, sempre in modo efficace, introduce grazie a Candide , le sue prime controdeduzioni filosofiche rispetto al filosofare iper-razionale e sistematico degli antichi. Semplicemente "narrando" l'amore per Cunegonda di Candide e la sua amicizia per i vari compagni di avventura.

Si noti con meraviglia cosa fa Voltaire, quasi senza che ce ne accorgiamo: rivolto agli antichi e a Leibniz sembra dire: voi parlate e disquisite tantissimo, ma le vostre riflessioni sono lontanissime dai fatti della vita, dalla pancia vuota o piena degli esseri umani, dall'amore sentimentale che unisce Candido a Cunegonda, dall'amicizia franca e stabile che unisce Candide, Martino, Pangloss, la vecchia etc. etc. Voltaire, che sembra apparentemente non avere certezze e caposaldi di natura metafisica, in realtà ci addita con maestria ed eleganza, VALORI umani che finiscono per trascendere persino i fatti di vita: l'amore, l'amicizia, il rispetto democratico, la solidarietà ( basti pensare alla figura "caritatevole" dell'anabattista). Ed anche il "lavorare" il proprio giardino, frase con cui Voltaire conclude il Candido, mi sembra un chiaro voler indicare la necessità del lavoro, come partecipazione responsabile ai fatti di vita.

Ammiro Voltaire grandemente anche perchè le avventure di Candide sono "gruppali". I filosofi del passato, anche nelle opere più dialogiche (Platone per esempio), erano filosofi "monocratici", che, presentavano "una" teoria ed "un" pensiero. Proprio "uno", talvolta evolventesi nel tempo. Dicevano: "è così ". Voltaire invece chiude il Candide con una miscellanea di voci, compresa quella di Pangloss, che stanno l'una accanto all'altra e sono tutte possibili, unite dal vincolo dell'amicizia, ma plurime nell'interpretare la vita. C'è il metafisico P., c'è l'ottimista, c'è chi non c'è più., e ci sono soprattutto l'amore di C. per Gun. e l'amicizia complessiva del gruppo. Ciò riflette straordinariamente la nostra società moderna dove , per fortuna dico io , non prevale un pensiero o una teoria, ma più voci , si spera amichevolmente e democraticamente , formano un coro ( dissonante ? non ha importanza ) di voci.

Concludo: ho voluto paragonare la nostra attività filosofica di gruppo a questa miscellanea di voci diverse, che costituisce spesso il pensare moderno. E se stiamo insieme come gruppo , certamente non è solo per i pensieri ed i dialoghi in comune , ma per le simpatie e/o antipatie che animano ogni fenomeno gruppale. ( per chi vuole approfondire rimando alla psicanalisi dei gruppi) Personalmente coltivo dentro di me , interiormente, molta "devozione " e simpatia per i grandi filosofi del passato, ma poi mi diverto un mare a metterli in crisi, a capire che la vita è spesso misteriosa ed inafferrabile, con una sola ottica o chiave di lettura. Forse l'unica possibilità è dunque quella di convivere pazientemente, nel coro di voci, ed abituarsi a far filosofia come quando si va al mercato e si "abbannia": c'è chi grida, c'è chi ha merce buona e chi cattiva, chi sa vendere e chi no, chi pretende di imporsi quasi a forza, etc., ma tutti in realtà devono rispettare le regole ( anche semplicemente e kantianamente inscritte nella coscienza morale dell'uomo), saper convivere. ( senza pagare il pizzo agli arroganti, e senza calare la testa a chi proprio non ci convince)

P.S. Qualcuno nel gruppo continua ostinatamente ad attribuirmi (quasi come una colpa?) uno sviscerato amore per S. Tommaso: confermo, ma spero si capisca, da quanto ho scritto, che in realtà, per me, anche S. Tommaso va unito al coro di voci che " abbanniano".

riflettendo sul "Candido"



dopo l'incontro di ieri per commentare la prima metà del Candido di Voltaire, mi hanno colpito le riflessioni di Alberto che hanno dato tre chiavi di lettura al romanzo-filosofico dell'illuminista ed ecco come li ho lette io: la prima è sulla Storia che col continuo ripetersi nel tempo (guerre, violenza,inganno, sopraffazione etc..........) sembra incapace di leggere se stessa per non cadere negli stessi errori, la seconda è la rinuncia da parte di chi non vuole (per paura, per scelta?) esserne parte attiva e si trincera nel suo giardino dove cerca di trattenere il solo nucleo familiare limitandosi a coltivare il proprio orticello e la terza è Candido (almeno fino all'ultimo capitolo) col suo peregrinare attraverso gli accadimenti della Storia cercando la coerenza nell'amore, nell'amicizia e soprattutto nell'inseguire la dimensione "gruppale" (termine usato da Alberto) del confronto e della sfida con opinioni e scelte diverse.
Ecco, a me sembra che quest'ultimo aspetto sia il "motore" del romanzo "fantastico" di Voltaire e direi dovrebbe essere il motore della vita di chi non si rassegna ad osservare semplicemente ciò che avviene restando passivo alle conseguenze ma cerca di reagire in un osmosi continua con gli altri relazionandosi sempre e comunque con tutti quelli disposti ad ascoltare e a dire (cosa che richiede una certa fatica).
Questo è tutto, credo che ce ne sia abbastanza per stimolare considerazioni sulla ns. attualità e sugli atteggiamenti che in questi mesi ognuno di noi è chiamato a scegliersi.
Armando Caccamo

venerdì 17 ottobre 2008

Da Maria Ales sul Candido

La mail di Pietro Spalla è arrivata puntuale e stimolante come un invito per me a restare nel tema, nella atmosfera dell’ ultima cenetta filosofica sul Candido di Voltaire.
Aggiungerei alcune notazioni:
1) la prolusione di Gianni Rigamonti è convincente, stringata e chiara, attenta alla critica letteraria che assegna al Candide un posto nella satira sociale. Ma Gianni ci parla anche dell’Autore di cui sottolinea aspetti personali, storici, di costume. Sono pennellate sapienti, rapide e stringate, con le quali ne tratteggia l’area psicorelazionale, il contesto di appartenenza, l’epoca.
Il Candide, dice Gianni, ha un modo di vivere assurdo e un pensiero irrazionale; nello stesso tempo ci informa che è un tedesco, alto per la sua epoca non meno di 1,70 soggetto dunque all’arruolamento militare forzato ( oggi no ma i corazzieri si scelgono).
Il forte rapporto con Federico II, imperatore della Prussia che lo accoglie nel regno non fu duraturo; anche l’ imperatore ha una visone del mondo contrastata dal re padre proprio per la sua inclinazione alle arti, l’ amato flauto, e la repulsione alle arti militari cui venne invece costretto subendo il carcere e rischiando la morte. Dal canto suo Voltaire /Candido sciorina una campionatura di disavventure che pure non ne modificarono le scelte.
2) Circa il ritmo del racconto satirico, la serie di disavventure snocciolate con un ritmo accelerato, senza pause, sottolinea l’ aspetto dell'assurdità del mondo; immaginando che anche la divisione in capitoli sia da considerare un artificio per chiudere una scena dopo l’ altra e non lasciare, almeno nell’ immediato, la possibilità di risonanza emotiva.
Una del gruppo filosofanti ha citato Calvino e le Lezioni americane, un testo molto lontano dalla mia capacità di comprensione, interessandomi per la immagine che una oscillazione del raccontare in onde lunghe e corte possa contenere invece il momento della riflessione.
3) In coda alla cenetta filosofica Francesco Palazzo ha da proporre una sua lettura che ha appena il tempo di accennare, Comincia con il riportare il concetto del “coltivare il proprio orticello”aprendo a possibili altre letture; quella che lui ha scelto utilizza il concetto delle aree relazionali e sociali all’ interno di ciascuna delle quali l’uomo acquisisce funzioni e ruoli definiti. Penso che l’avere consapevolezza delle relazioni interpersonali e sociali, dalla appartenenza al privato del primario gruppo familiare a quella dei vari gruppi sociali, favorisca e in sostanza promuova gli incastri utili nel gruppo allargato e ai vari livelli. E ciò proprio se mi concentro sulla definizione di bisogni temperati, aspettative misurate, scelte consapevoli, progetti condivisi.
Allora leggerei il dedicarsi al proprio orticello o dell’ ulteriore ritorno ai campi di Cincinnato, eroe salvatore della patria, senza il sapore della rinuncia ma come una ulteriore capacità di scelta nella vita.
4) Buon ultimo alla domanda che ho rivolto al gruppo su possibili rappresentazioni teatrali del Candide risponde Internet.
Candide venne rappresentato per la 1° volta nel lavoro di Leonard Bernstein ( 1918 – 90): la fatica nell’azzardo di tradurre in musica per il teatro popolare un capolavoro della lettura polemica illuministica del candide o de l’ Optimisme di Voltaire fu un insuccesso nel 1759 riproposto nel ‘973 e ‘89 con successo)
Candide nel teatro: rappresentazioni attuali al teatro Granchio di Motisi in Toscana con il titolo “ il migliore dei mondi possibili”; al teatro della Tosse a Genova; a Fidenza, come un musical in una piece teatrale “un gioco di teatro nel teatro”
Saluti affettuosi o di compassione per chi è arrivato in fondo
Ciao Maria

giovedì 16 ottobre 2008

Un Crudele Esperimento - II

Siamo nel 2650 d.c., in Giappone. Da alcuni anni è divenuto normale produrre nuove specie viventi, in sostituzione delle vecchie. La modifica sostanziale di quelle esistenti si era già consolidata verso la metà del 2300.
Ogni volta che si producono nuovi umanoidi però, è sempre emozionante come la prima volta.In questo caso, ai nuovi nati si deve chiedere infatti se vogliono continuare la loro esistenza e meno, dichiarando quindi la loro intenzione di riprodurre e proseguire nel tempo la nuova specie.

È il 25 settembre, e da mesi nel nuovo laboratorio situato in un luogo segreto e protetto dell’isola di Hokkaido, si sta lavorando ad un megaprogetto, attraverso il quale sarà possibile creare una specie di nuovi Trans-Umani che abbiano alcune fondamentali caratteristiche, tipiche delle altre specie animali inventate in laboratorio nei 200 anni precedenti. Una di queste è il “dono dell’instancabilità”, che fa leva su una riserva di forza fisica e presenza mentale in grado di auto rinnovarsi in pochi minuti.

I primi esperimenti, come ricorda il direttore del laboratorio, Hyoshiro Makoto, avevano puntato sulle capacità artistiche ed intellettive; egli stesso poteva dirsi fieramente figlio di questi esperimenti, essendo stato generato da un padre ibridato con seme “AAB- kk3450” e da una madre di tipo “6852 FFG 835”, cioè quelli riconosciuti come tra i migliori selezionati fino a quel momento. Le caratteristiche di Hyoshiro sono stupefacenti, la sua capacità di comprensione e sintesi istantanea di problemi complessi, quasi ineguagliabile. La sua sensibilità umana ed affettiva non è da meno, essendo controllabile attraverso una serie di bioapparecchiature microscopiche poste vicino alle mani. I meccanismi di controllo sono stati applicati in modo sottocutaneo, e soltanto lui può attivarli, riconoscendo nel proprio codice genetico la password di accesso per cambiare il proprio stato.

A Hyoshiro basta sfiorarsi i polsi o gli avambracci dove lui sa, per cambiare in brevissimo tempo il proprio stato intimo, comunicativo o di percezione. Così, se è arrabbiato, gli basterà fare dei movimenti non solo per calmarsi, ma proprio per dimenticare e superare la sua condizione istantanea, rimettendosi in sesto. Se vuole essere più attento ed affettuoso verso i propri cari, gli basterà compiere intenzionalmente un determinato gesto, poiché le microghiandole di cui è dotato, metteranno in circolo sanguigno le sostanze necessarie, appositamente studiate per quell’effetto.
Hyoshiro ricorda ancora, quasi sorridendo, quando gli umani di alcuni secoli prima andavano nelle farmacie ad imbottirsi di sostanze velenose e tossiche, pur di togliersi un banale mal di testa.
Queste cose adesso le si guarda solo negli spettacoli comici, o nei remix dell’epoca. Però, doveva essere carino, trovarsi lì. Gli umani del 2650 hanno superato qualsiasi condizione di malattia, e sono padroni del loro destino. Decidono di nascere, di restare fin che vogliono e, quando è il momento giusto, anche di morire, concedendosi una pausa di relax sufficientemente lunga prima di riprendere la propria missione sulla Terra con un trasferimento bio-genetico. La consapevolezza, nel trasferimento della propria coscienza individuale, è assicurata. Ogni volta che le esperienze personali devono essere trasferite su un altro corpo, vengono prelevati tutti i cloni genetici e di memoria dell’individuo che, come si sa, non appartengono solo al cervello, ma a tutte le cellule del corpo. Esistono potenti elaboratori bio-tecnici, sovralimentati al plasma di tungsteno ed iridio, in grado di svolgere questa complessa operazione di sintesi, compressione e riduzione all’essenza, delle singole esperienze. Naturalmente è l’individuo che sceglie quali esperienze vorrà ricordare e quali no. Poi il tutto viene conservato in una banca dell’informazione androide mondiale, che possiede le complete garanzie di stoccaggio e controllo delle informazioni vitali. L’individuo sceglie di interrompere la propria vita su quel corpo quando lo desidera, programmando la propria rinascita in un altro luogo e in un tempo prestabilito, scegliendo perfino una coppia di genitori consenzienti, che si ritroveranno grazie ad un complesso appuntamento.

Grazie a questo sistema, pochi hanno scelto di non rivivere più, essendo disincantati e stanchi dell’esistenza. Se avessero voluto, avrebbero anche potuto scegliere di percepire l’esistenza in modo totalmente diverso, con gioia, amore, collegamento esteso agli altri esseri viventi, essendo queste percezioni totalmente controllate dalle sostanze cellulari e plasmatiche in circolo. Eppure essi hanno deciso di terminarsi, e questo per fortuna non è più un problema morale o giuridico, essendo eticamente riconosciuto e delegato all’individuo stesso il proprio diritto alla vita, ma anche a quello della morte e dell’annullamento.

I problemi filosofici degli individui sono stati sciolti, avendo essi la possibilità di ricordare gli stati di premorte e post-morte, così come le esperienze vissute nelle fasi intermedie tra una esistenza e l’altra. Le persone conoscono ed arbitrano il proprio destino in modo totale, nella certezza di porre in essere il desiderio profondo di un creatore supremo, che essi non ricordano di aver mai visto, ma la cui presenza è avvertita a livello subliminale in modo pressoché continuo. Ognuno si sente parte di un Tutto in modo chiaro, e questo Tutto viene spesso indicato metaforicamente come “il Grande Amore”. Così, esistono una serie di storielle e barzellette che giocano sull’equivoco del “mio grande amore”, utilizzate ad esempio quando un ragazzo vorrebbe per la prima volta dichiarare il proprio interesse verso una ragazza, e magari non trova il coraggio di farlo.

In questo mondo la riproduzione è naturale, ma selezionata. Ogni particolare del proprio futuro, e di quello dei figli è programmato dall’individuo non in senso casuale, ma in modo saggio, attento ed amorevole. Questo accade perché gli umani hanno imparato a fidarsi completamente gli uni degli altri, e quindi ciascuno accoglie ed elabora, in modo onesto e privo di pregiudizi, migliaia di consigli altrui, prima di decidere.

Può sembrare paradossale, ma questa civiltà è frutto di un crudele esperimento.

Infatti, si è sviluppata in un piano esistenziale diverso, in un mondo parallelo ove i nazisti avevano vinto la seconda guerra mondiale. Non ve ne era stata una terza, perché per oltre un secolo e mezzo il mondo dovette marciare in modo monotematico, ma non monoteistico. Già verso la fine del nel 2100 si avvertirono i primi cedimenti governativi, i quali indicavano chiaramente che l’esperienza del nazismo, in quanto forma autoritaria e suicida verso alcune razze, era finita. Al tramonto dell’Autorità assoluta, gli esperimenti nel Deserto del Sahara avevano prodotto una razza superiore, in grado di uscire dalla prigionia e prendere il potere, capovolgendo la situazione mondiale in modo relativamente più lento. Forme di inquinamento barbarico non avevano avuto modo di esistere, così come l’energia nucleare non fu mai impiegata a scopi bellici, e neanche tanto a scopi civili, non essendo quel mondo affamato di energia da devolvere agli sprechi.

E soprattutto, essendo l’uomo già da molto tempo privato del dogma filosofico–teologico, ed avendo superato quello politico-sociale post-nazista, poté nei secoli successivi scegliere gli scopi e gli impieghi della tecnologia. Avendo gli umani imparato sulla propria pelle cosa significa morte, distruzione, abbandono, isolamento, genocidio, discriminazione, ma anche e soprattutto egoismo, autocrazia o prigionia, nei secoli successivi essi evitarono gli errori fatti in precedenza. Inoltre, essendo stata la cultura precedente in gran parte perduta, e gli antichi libri bruciati, ne fu creata una totalmente nuova, non meno avvincente ed interessante. I classici non influenzarono le menti, dimostrando che il vuoto genera libertà, ove vi è intelligenza. Il ferro invece genera ruggine e l’ossido corrode, lasciando scheletri che nessuno ha il coraggio di togliere.

Così, nel settembre del 2650, Hyoshiro Makoto si appresta a creare nuovi umanoidi in grado di non stancarsi. Egli sa, come tutti sanno, che di fronte alla possibilità di autodeterminarsi non ha molto senso parlare di anima o di corpo, ma solo di possibili ed infinite sfaccettature dell’esistenza. Entrare ed uscire dalla materia per l’uomo è divenuto naturale, ed anche per tutte gli esseri da lui creati.
Forse un giorno anche Hyoshiro, divenuto ormai vecchio, si interrogherà su un mistero, chiedendosi perché queste possibilità, appena pochi secoli prima, non esistevano. Si chiederà perché la gente soffriva, si ammalava e poi moriva, anche se ovunque nel mondo le religioni confortavano i moribondi e gli ospedali curavano gli ammalati, nel lusso come nella fatiscenza.

Un dubbio sfiorerà allora la sua mente, e sarà la prima volta che ciò sia mai accaduto per lui. Alla penombra della lampada laser blu, poggiata sul tavolo di vetro-titanio, così trasparente da sembrare impalpabile, le sue mani toccheranno la fronte pensierosa e gli occhi saranno chiusi, assorti in questo immenso mistero. Egli avrà una visione, e sognerà che un giorno lontano del tempo passato un dio cattivo aveva privato l’uomo della sua libertà, assegnandogli una serie di destini, tutti apparentemente diversi ma in realtà tutti monotoni.

Sognerà il destino dei manichini, uomini riprodotti incontrollatamente da sé stessi, a partire da un umanoide-prototipo in gran parte lobotomizzato. Così come la specie che lui incarna adesso, non rappresenta più quei manichini, forse intuirà che, a suo tempo, una “nuova” specie umana fu introdotta artificialmente nel pianeta, con caratteri e scopi molto distruttivi, e con una serie di parti mancanti o mal funzionanti, in modo da accrescerne spaventosamente le potenzialità deleterie.

Ma, non riuscendo ad immaginare chi e come abbia mai potuto concepire e realizzare qualcosa di così crudele, scaccerà dalla sua mente questo pensiero, con il suo solito gesto che serve ad annullare le tristezze ed i pensieri negativi. Allora troverà pace, ed il suo corpo, ormai stanco, deciderà di andare a letto. Forse in quel momento comincerà anche a pensare che, essendo all’apice della sua splendente vita, è anche giunto il momento di morire saggiamente, e di lasciare il suo compito ad uno dei tanti giovani collaboratori di cui egli è fiero. E, per darsi pace ed un pizzico di sano ideale, tornerà a ricordare il millenario Impero del Sol Levante, con le infinite schiere dei valorosi che diedero la vita per un ideale più alto, per un mondo migliore. E cancellerà dalla mente il pensiero dei nazisti, che furono solo dei temporanei alleati. Ed i suoi occhi brilleranno, per la commozione che quel sentimento fantastico avrà suscitato in lui. Con emozione vibrante, ricorderà l'anziano Maestro 会気道 quando gli aveva detto: "Sarai libero di combattere solo quando non sarà la tua mano a tenere il bastone. Ma il bastone la tua mano".

E' arrivato il momento di salutare Hyoshiro. Lo lasciamo mentre ancora egli non sa, non ha ancora concepito tutto questo. Lo lasciamo libero di continuare quegli esperimenti che egli conduce nella certezza etica che questi faranno evolvere la specie umana di quel pianeta Terra.
Un pianeta Terra-2, nato in una realtà parallela dove i nazisti avevano vinto, ma poi erano passati come il Tempo e, lentamente, erano stati sepolti, senza la necessità di alcuna distruzione ulteriore.

mercoledì 15 ottobre 2008

Resoconto di Pietro

Cari filosofanti (a tempo perso e per professione). E' stato bello ritrovarsi per ricominciare a pensare insieme, ispirati da Voltaire e dal suo "Candido". Gianni ci ha introdotto al libro contestualizzandolo opportunamente con sintetitci ed efficaci riferimenti storici e filosofici. Secondo Gianni, Leibniz non meritava l'ironia di Voltaire che lo prende in giro in tutto il libro per il suo ingenuo ottimismo dato che ritiene che questo sia "il migliore dei mondi possibili". Ma, come ha fatto notare lo stesso Gianni, non è solo Leibniz il bersaglio delle frecciate umoristiche di Voltaire, che ridicolizza anche la mentalità del periodo e la stupidaggine degli uomini che si procurano inutili e reciproche sofferenze. Dopo alcuni accenni di Armando al "deismo" di Voltaire che crede in un Dio solo creatore ma lontano e indifferente, gli interventi hanno messo in luce la velocità da comiche del film muto con la quale si muovono i personaggi e si succedono gli avvenimenti del libro: personaggi di gomma, ha notato qualcuno, che muoiono e rinascono all'improvviso. Lo stesso Candido - fa notare Mario Spalla - si muove, cade e si rialza, insegnandoci ad andare comunque avanti nonostante tutte le tribolazioni della vita. Candido è, invece egoista secondo Armando e Gianni, quando teorizza che ognuno deve coltivare il proprio giardino senza occuparsi della cosa pubblica. Ma meritano attenzione anche le benevoli interpretazioni di Marcella e Francesco che cercano di vedere, in questo invito a coltivare il proprio giardino, anche un richiamo al pragmatismo, alla necessità che ognuno esegua al meglio il proprio lavoro non per rinchiudersi dentro uno steccato ma per mettere a frutto i propri talenti a beneficio anche degli altri. Simpatico e indovinato il riferimento che Augusto ha fatto al personaggio Forrest Gump come al moderno Candido dell'omonimo film. Ci rivedremo martedì 21 ottobre per commentare la prima metà del libro e anche per approfondire almeno due interessanti domande che mi sembra siano sono venute fuori da questa interessante cenetta:
1) E' ingenuo Candido che rimane candidamente convinto che bisogna comunque credere nei propri sogni (e che la vita ha un senso anche se non sembra) o siamo ingenui noi quando crediamo solo a quello che vediamo forse perchè non riusciamo a vedere al di là del nostro naso?
2) E' possibile che lo scontro tra Voltaire e Leibniz si possa comporre così: Dio effettivamente non ha creato il migliore dei mondi possibli ma solo la sua materia prima lasciando agli uomini la possibilità di plasmarla per realizzarlo?
Pietro Spalla

giovedì 25 settembre 2008

Si ricomincia il 7 ottobre con il Candido di Voltaire

Cari praticanti filosofi, Martedì sette ottobre riprendiamo le nostre cenette filosofiche con il "Candido" di Voltaire. Spero che Gianni Rigamonti ci introdurrà, come sa fare, alla lettura del testo. Sarebbe bene che leggessimo, come primo appproccio, almeno le introduzioni e le primissime pagine del libro (e, se possibile, anche qualcosina sull'autore se non lo conosciamo).Vi ricordo che l'appuntamento è allle 20,30 per chi cena con noi (con preghiera, in tal caso, di avvertirmi) e alle 21 per gli altri Ciao Pietro

lunedì 8 settembre 2008

Un Crudele Esperimento

... All’improvviso ci trovammo in un mondo parallelo, ove la seconda guerra mondiale l’avevano vinta i nazisti. Le icone del Terzo Reich erano presenti ovunque nel pianeta.
Ma vi era un luogo segreto ove questo non accadeva...

Siamo nel deserto del Sahara, dove i carri di Rommel hanno fatto piazza pulita degli avversari, molti anni prima. Adesso siamo agli inizi degli anni ’70 di questo mondo-specchio.
Qui i medici neonazisti, eredi dei loro famosi e crudeli predecessori, stanno studiando le reazioni della psiche umana sotto particolari condizioni che definiamo senz’altro anomale.
Una delle domande a cui si tenta di rispondere è la seguente: se alleviamo un certo numero di esseri umani in condizioni di isolamento rispetto al resto del mondo, e diamo loro una serie di informazioni distorte sulla realtà, essi tenderanno ad accorgersene? E fino a che punto essi utilizzeranno nel loro sviluppo mentale dei codici informativi innati? Lo scopo subdolo è, ovviamente, quello di valutare se alcune razze, considerate inferiori, possono essere schiavizzate senza che se ne accorgano.

Per realizzare questo esperimento viene costruito in pieno deserto -in una località segreta sgomberata dalla presenza umana esterna per un raggio di 700 km- un immenso campo di concentramento, cha ha un perimetro interno di 320 km. A delimitare il “campo”, vi sono otto barriere concentriche, costituite da muri bianchi e lisci, alti ben 35 metri per ogni perimetro successivo, e posti ad una distanza di 15 km l’uno dall’altro, e separati dalla rovente sabbia e sterile del deserto. All’interno viene posta una popolazione-prototipo adatta all’esperimento, descritta più avanti. Ammesso che qualcuno riuscisse a salire sul primo muro, si troverebbe di fronte un spettacolo desolante. Avrebbe la percezione ottica di un deserto infinito ed inospitale, dissezionato da muri di cui non si intravede alcuna fine. Avrebbe la sensazione che, al di fuori del campo non vi sia nessuno, e che vi siano barriere insormontabili, dove non val la pena nemmeno di cercare. Anzi, chi avesse il coraggio di valicarli, perderebbe di certo la vita.
Nel campo vengono poste le strutture e le risorse essenziali e rinnovabili per la sopravvivenza, ed un minimo di attrezzature per fare eventuali creazioni o riparazioni, tipo laboratori semi-attrezzati.
Vi lavorano un certo numero di dipendenti che hanno il compito di allevare dei neonati che sono stati forzatamente strappati ai loro genitori. I dipendenti nazisti hanno l’obbligo di non parlare mai tra loro, per fare in modo che i bambini, crescendo non imparino nessuna lingua per comunicare, ma possano farlo solo a gesti. Naturalmente non vien dato nessun tipo di istruzione o educazione: li si nutre semplicemente, fino al momento in cui, a gesti, gli si impone di divenire autosufficienti, mediamente all’età di 10-12 anni. I ragazzi non vengono mai separati in alcun modo, né per età o sesso o altro, di modo ché tra loro possano interagire liberamente.
Gli originari “allevatori” dei bambini-cavie, sono stati completamente sgomberati dal campo dopo i primi dieci anni di esperimento, quando un numero sufficiente di ragazzi aveva raggiunto l’autosufficienza. I sistemi di controllo sono sostituiti da tecnologie raffinate ed invisibili ai loro occhi, costituiti da telecamere e microfoni spia, a registrazione continua ed in teletrasmissione. Una specie di grande fratello non televisivo, che funziona molto meglio poiché i ragazzi sono ignari dell’esistenza di queste tecnologie.
Alla fine degli anni 90, in quel mondo parallelo dove i nazisti hanno vinto, sinteticamente vengono pubblicati i primi risultati delle ricerche compiute, che sono di seguito illustrati. La ricerca viene dedicata simbolicamente al Furer, per il centenario dalla sua nascita, a poco più di 15 anni dalla sua morte. Qui di seguito, in sintesi i risultati.

I ragazzi crescendo hanno imparato da soli ogni cosa che riguarda l’autosufficienza e la sopravvivenza.
Hanno stabilito tra loro relazioni di supremazia, secondo la priorità del più forte.
La violenza e l’assassinio sono forme di relazione normali tra gli individui.
Lo sviluppo linguistico è limitato a mugugni, che sono accompagnati da gesti espliciti, solo in parte tramandati dagli originari allevatori.
Abbandonati a sé stessi, i ragazzi sono in grado di sopravvivere, ma ignorano le loro origini.
Qualcuno ha tentato di costruire rudimentali scale per scavalcare i muri, ma senza riuscirci, ed in qualche caso facendosi male.
Chi si ammala seriamente è destinato a morire, e non vien accudito o curato dagli altri; non è detto che la sua morte venga accelerata.
La solidarietà è inesistente, ma si creano gruppi e fazioni di interesse per il controllo dei beni, degli spazi e dei territori, sorta di clan pseudofamiliari.
L’amore è inesistente, ed i rapporti sessuali, frequenti sin dalla tenera età, non hanno alcun fine relazionale, ma sono limitati al soddisfacimento della libido.
La nascita dei piccoli è vissuta in gran parte inconsapevolmente, ma le giovani madri tendono a legarsi ai figli in modo viscerale, il che spesso scatena ulteriori conflitti tra gli abitanti del lager. Questo legame madre-figlio non è necessariamente ciò che definiremmo amore.
A oltre 30 anni di distanza dall’inizio dell’esperimento, gli abitanti non hanno compreso il significato e l’utilità di molte delle attrezzature a suo tempo lasciate loro in dotazione. L’agricoltura e l’allevamento vengono praticati in forma rudimentale.

Gli ideatori dell’esperimento avevano inconsciamente disegnato la mappa di questo particolare campo di concentramento secondo strutture concentriche e ripetitive. Senza volerlo, hanno emulato una particolare caratteristica che conduce la mente umana nel labirinto di sé stessa, ove la prigione è fatta di mura create dallo stesso soggetto. Quando l’essere umano vede davanti a sé una struttura di quel genere la “riconosce” come vera, così rafforzandola.Se nell’universo ogni cosa è contenuta in un’altra più grande, ma di natura simile e rispondente (Pianeta > atmosfera > sistema solare > ammasso stellare > galassia > nube cosmica > limite dell’universo apparente…), orbene seguendo questa strana similitudine adesso i pensatori nazisti cominciano ad interrogarsi se, per caso, il pianeta terra non possa rappresentare un lager di cui essi stessi ignorano l’origine ed il significato, visto che questa umanità, per quanto frazionata in razze inferiori e superiori, nel suo insieme non ricorda nulla delle proprie origini. Cominciano a chiedersi se il sistema solare non possa essere stato appositamente creato non da Dio, che probabilmente non esiste o non interviene, ma da misteriosi esseri alieni ben più nazisti di loro. Una prigione autosufficiente, senza sbarre, concentricamente ripiegata su di sé, affinché nessun terrestre pensi di poterla valicare fisicamente senza la benché minima possibilità di tornare indietro vivo. E se quand’anche qualcuno ci riuscisse, non vedrebbe altro che il vuoto interstellare, praticamente invalicabile con il corpo fisico a causa dell’enormità delle distanze.
Adesso questi ricercatori, rosi dal sospetto, stanno cominciando a sviluppare tecnologie e sistemi individuali per ampliare le proprie capacità di percepire, usando sistemi alternativi alla vista. E soprattutto, i loro fisici stanno cominciando a ricercare quella misteriosa dimensione che è il Tempo, per scoprire se questa porta apparentemente blindata non possa essere scardinata in qualche modo.
Nonostante il loro freddo e rigoroso materialismo, i nuovi ideologi del nazismo di questo mondo parallelo al nostro, stanno cominciando a prendere in considerazione la possibilità che l’uomo, come specie, possieda una qualche forma animica, che sia in grado di rafforzare questo stato atavico di prigionia.

A quel tempo, eravamo solo alla fine degli anni ’90.

mercoledì 9 luglio 2008

La gioia del non riflettere

Non mi piaceva questa pagina sul pensiero triste lasciata per ultima, forse per lungo tempo ancora. Parole incompiute, idee abbandonate lì prima di partire in fretta, per le vacanze d’estate.
E non mi piaceva l'dea che la tristezza fosse un marchio per imprimere l'umanità intera.
Ed affinché la vacanza non fosse un vuoto, ma nemmeno un pieno di ruote dentate per la mente, ho immaginato una situazione, ed ho scritto queste parole che dedico a tutti noi, ed a tutti i lettori del blog, nella speranza che possano farsi apprezzare.



Il mondo in un sospiro



L’uomo bianco era forte, aveva eserciti e canne tuonanti.
L’uomo bianco era furbo, aveva scienze e filosofie alle spalle,
e per questo si credeva sapiente.
Aveva un solo dio che portava lontano nel mondo.
Un dio che conquistava gli altri dei, e i loro fedeli.
E tutti superava, con il convincimento o con la forza.

Nella sua ultima comparsa sulla terra,
il figlio incarnato di quell’unico dio era stato ucciso
e per millenni i suoi devoti ne avevano seguito l’effigie
bevendone il sangue e a mangiandone le carni,
senza sapere il perché.

L’uomo bianco era astuto, e trattava il mondo
come uno scacchiere, muovendo sé stesso come una pedina.
A se stesso pensava: ma era mosso, e non lo sapeva.
E l’uomo bianco, varcò l’oceano grande
pensando di essere il primo.
E non volle mai scoprire che millenni prima di lui
Altri avevano già varcato altri oceani come anche quello.
Negò le evidenze, perché voleva essere il primo in ogni cosa.

L’uomo bianco era astuto, ma aveva la tristezza nel pensiero.
Perché egli non pensava, ma giocava a scacchi col mondo.
Dopo aver riflettuto a lungo, invase le terre e i villaggi.
L’uomo bianco disse al capo indiano:
“Vendimi le tue terre!”.

Il capo indiano non era furbo, non era astuto.
Non aveva eserciti né canne tuonanti.
Non aveva l’acqua di fuoco, né il raffreddore.
I maschi e le femmine del suo popolo
non avevano delle piaghe nei genitali,
e le madri non soffrivano per i figli appena nati
e non morivano di parto.

Il popolo indio non possedeva le terre, ma le abitava.
Non possedeva animali o piante, e non possedeva il fiume
che scorre possente. Non possedeva ma accarezzava.
E, sentendosi compagno di ogni forma, chiedeva il permesso
Prima di raccogliere i frutti, o di cacciare la selvaggina.
E prendeva il giusto, e mai qualcosa in più. E ringraziava. Ogni volta.

Il suo popolo aveva molti dei, e non vi era cosa o luogo
Che non avesse il suo piccolo dio, a custodia del sacro che dona la vita.
Così, la moltitudine di dei vivi e presenti ovunque,
erano corpo e braccia del dio maggiore.
E l’acqua del fiume era il limpido sangue, e il letto profondo, le sue vene.
Questa era la carne di colui che gli antichi avi raccontarono
avesse creato il mondo con un soffio verso di sé.

Per l’ultima volta l’uomo bianco ripeté al capo indiano:
“Vendimi le tue terre, ti pagherò bene!”.
Il capo indiano non era astuto, ma ascoltava con pazienza e fermezza.
Quando sentì la giusta risposta nel suo animo, il capo indiano rispose.
E la sua era sentenza, perché gli dei avrebbero reso vera
la cosa giusta, la risposta saggia che essi stessi avevano suggerito.
Il capo indiano non aveva riflettuto, aveva solo dato voce alla Voce
che da sempre è nascosta nel cuore di ogni uomo.
La risposta che l’uomo bianco aveva dimenticato, da tempo immemorabile.

“Come faccio a venderti le terre…” disse l’anziano capo
con la pipa fumante e la pelle di bisonte avvolta sulle spalle.
Parlò con lo sguardo lontano e le piume del falco
tremanti alla brezza, coronando i lunghi capelli d’argento.
“Come faccio a venderti il fiume sacro, e la collina degli dei…
Come faccio a venderti i cavalli e tutti gli animali nostri amici
che abitano questa terra che è così bella e grande.
Questa terra che confini non ha,
Perché l’orizzonte non finisce mai, e oltre ogni orizzonte
vi è una nuova vita per ogni uomo ed ogni forma.
Nuova vita per chi ha desiderio, e timore, e rispetto,
per l’uomo che ricorda che quando prende deve anche dare…
Come faccio a venderti tutte queste cose
Che sono parte di me, ed il mio popolo è parte di loro?
Il tuo oro non basterebbe, né basterebbe tutto l’oro del mondo.
Perché ciò che è vivo no può essere comprato né venduto,
Né mai posseduto da alcuno.

L’uomo bianco era furbo, e sapeva far bene i suoi conti
ma il suo cuore era pieno di rabbia e di disprezzo.
Il suo pensiero era triste perché non vedeva la luce,
né l’orizzonte, né gli dei così nascosti eppure così evidenti.
Egli conosceva solo il possesso, e per quello era andato così lontano.
E negli incubi delle sue notti egli vedeva solo il sangue,
forse perché ne aveva bevuto tanto, ed aveva mangiato troppa carne.

Passarono i giorni, i mesi e gli anni, e il senso delle stagioni fu perduto,
anche in quelle terre così lontane ed estreme.
Anche i figli del popolo dei guerrieri senz’armi
conobbe la distruzione, ed il possesso, e le malattie, e la tristezza.
La tristezza che è figlia del vuoto del pensiero.
I figli del popolo degli indio, ed i figli dell’uomo bianco dimenticarono.
Dimenticano oggi, da dove provienne l’oro che hanno in tasca.
E dimenticarono per sempre ciò che fu scritto ai piedi della collina degli dei.

“L’albero sacro è morto”,
scrisse l’ultima ragazzina con le piume in fronte.
Scavò con le dita nel fango, prima di fuggire.
E tracciò per l’ultima volta i sacri segni
che l’anziano dai capelli d’argento
le aveva un giorno insegnato.
Col cuore puro vide lontano nel tempo
scorse altri popoli ritrovare i segni
di un futuro antichissimo,
e vide il giorno in cui qualcuno
avrebbe ricominciato a leggere.
A leggere la sacra lingua
degli dei che abitano ogni cosa,
ogni luogo, ogni animale.
Ed anche ogni uomo.
Ogni uomo che conosce
la gioia del non riflettere,
la gioia del pensiero libero
che al tutto si collega,
senza catene
senza legami
ma soltanto
con un filo azzurro,
luminoso,
che oltrepassa le stelle
con il soffio
che il grande dio
espira in ogni istante
nel desiderio
di attraversarmi.

domenica 22 giugno 2008

la tristezza del pensiero


cari cenacolanti, domani ci incontreremo e, oltre che augurarci la "buona estate", decideremo quale testo sarà oggetto di commento dal prossimo autunno. Come sanno coloro che erano presenti all'ultima cenetta, io ho proposto un breve testo di George Steiner sulle "dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero" Garzanti . Indipendentemente dalla scelta che faremo (l'alternativa sembra essere il "Candido" di Voltaire) voglio elencare queste dieci ragioni che mi hanno "intrigato" moltissimo e mi hanno spinto a proporre di commentarle in gruppo:

il pensiero è illimitato
il pensiero è incontrollato
il pensiero è sommamente nostro
il pensiero è ambiguo: non è né vero né falso
il pensiero spreca se stesso
il pensiero spera contro ogni speranza
il pensiero vela almeno quanto rivela
il pensiero ci rende estranei l’un l’altro
il pensiero è poco adattabile agli ideali di giustizia
e di democrazia

il pensiero è straniero a se stesso e all'enormità del mondo

una chiave di lettura?

Il libro di George Steiner tratta del fondo di tristezza ineluttabile che accompagna il passaggio dall'homo all'homo sapiens, di quel velo di malinconia che colora l'esistenza. Quello che si dipana in queste pagine è un pensiero che pensa sé stesso: da un lato porta alle estreme conseguenze il «Penso, dunque sono» di Cartesio, dall'altro è consapevole che il pensiero non potrà mai smettere di pensarsi fino in fondo, che ci è sempre presente e dunque non riusciamo mai ad afferrarlo davvero.

che ne dite?


Grazie e a presto, Armando Caccamo

martedì 17 giugno 2008

Last minutes to paradise

Abbiamo concluso finalmente la discussione sul buon Vito Mancuso, su temi che hanno scaldato gli animi e diviso i cenacolanti in pro e contra "L'anima ed il suo destino ". C'è stato pure chi ha simpaticamente proposto uno scrutinio palese a fine cenacolo, forse influenzato dalle concomitanti competizioni elettorali. Sarà anche che sui temi mistici e teologici , si creano sempre , come in passato, acerrime fazioni , e allora... dagli all'eretico ed all'antieretico. Probabilmente i nostri avi cenacolanti dell'alto medioevo avrebbero preparato la pira e non ci avrebbero pensato due volte a bruciacchiare il povero Vito, ma , per fortuna,viviamo in tempi più liberali e tolleranti, tali da permettere, almeno, una discussione civile e serena. Vorrei però, prima di lasciare nell'oblio il tema trattato, considerare, da credente,a volte un pò scettico , se dopo la lettura del libro di Vito, l'accesso al Paradiso , nell'ottica del credente , sia più facile o difficile. Leggendo il libro di Mancuso si ha la sensazione che per spiritualizzare l'anima occorra tutto un lavoro che è anche culturale e di preparazione , anche sul piano della bontà morale, e che non tutti se lo possano permettere. A questo proposito Pietro suggeriva anche la possibilità di più vite per raggiungere lo scopo. E' come se , per il credente colto e preparato fosse più facile accedere alle alte sfere della bontà divina e paradisiaca. Ora, già viviamo in una società che fa dell'esclusione e della raccomandazione le basi principali per riuscire in qualche modo a sopravvivere, se pure l'accesso al Paradiso diventa un fenomeno di elitè , che speranza ha il povero credente di consolarsi almeno con l'idea che un giorno tutto sarà chiarito e sarà fatta giustizia ? Preferisco pensare che l'andata in Paradiso ( se c'è ) sia facile facile , come un biglietto last minute , a basso costo, necessariamente scontato e popolare. Ho fatto l'esempio , durante la cena , del buon ladrone sul Golgota che , sulla semplice base dell'accettazione di una idea di giustizia (nel caso specifico data dal riconoscimento di un giusto castigo) , senza neppure la V elementare , sembra accedere al Paradiso grazie alla fede nella promessa che gli fa Gesù morente sulla croce ("oggi stesso sarai con me in Paradiso"). Insomma il ladrone verosimilmente incolto e rozzo su un semplice atto di fede e di giustizia si guadagna il Paradiso . Sarà che gli intellettuali hanno perso il contatto con le realtà più semplici ed umili ? E poi che piacere c'è nell'escludere la corporeità dall'idea di resurrezzione e del paradiso ? Una concezione così ascetica e platonizzante del Paradiso,contrasta con secoli di storia del cristianesimo, non solo cattolico ,ma anche riformato. Anche qui , con tutto il rispetto per Platone , mi sembra che la concezione mancusiana del paradiso sia un pò troppo nell'Iperuranio.
Ed ora comunque stop con V.M.

giovedì 5 giugno 2008

Basta con Mancuso!

Cari cenacolanti
colpiti dall'implorazione di Francesco Vitale sul Blog, abbiamo deciso di chiudere con il libro Mancuso, che pure è stato molto stimolante. Per martedì' prossimo dovremo avere letto tutto il libro in modo da finire di commentarlo; poi ci sarà la pausa estiva e riprenderemo a fine settembre o ai primi di ottobre con un nuovo testo (preparatevi una proposta per martedì)
Anche martedì scorso il dibattito è stato vivace, con la psicologa Maria che ha accusato Mancuso di concorrenza sleale perchè usa linguaggi e concetti brevettati dagli psicologi invece di occuparsi solo di cose astratte ed inutili come, secondo lei, dovrebbe fare ogni buon teologo. In particolare a Maria ha dato fastidio che Mancuso ci abbia azzeccato in pieno quando, a proposito del peccato originale, ha parlato di un vago senso di colpa che ci deriva dal fatto stesso di esserci e di occupare uno spazio a scapito degli altri: effettivamente, ha sottolineato Maria, viviamo a spese degli altri, ma queste verità i teologi non devono dirle per non essere scambiati per persone concrete e razionali.
Molto educata e controllata la risposta di Augusto che ha rivendicato il diritto dei teologi di "ragionare" e di occuparsi dellla realtà.
Dopo alcune interessanti riflessioni sul significato che ha per Mancuso il peccato originale (collegato al processo di individualizzazione e, quindi, alla perdità dell'unità originaria ed alla separazione dal tutto accogliente da cui proveniamo) Io ed Armando abbiamo, come al solito, inutilmente cercato di difendere Mancuso dai soliti prevenuti attaccchi di Alberto che deve avere una questione personale con l'autore ed il suo principio ordinatore; "Mancuso non mi incanta - ha spiegato - con questo cerchiobottistico approccio laico e religioso insieme; dietro questa sua pretesa di scientificità ci sono sempre Dio e la salvezza, che possono essere oggetto di fede e non di indagine scientifica."
Anna Gulì ha, poi, cercato di giustiificare le difficoltà che incontra il principio ordinatore nel suo percorso con la fisiologica presenza delle forze di opposizione che alla fine, anche se posssono sembrare struruse per partito preso, svolgono in realtà un ruolo evolutivo fondamentale.
Infine Francesco ha introdotto un interessante concetto relativistico del Principio Ordinatore, che non farà piacere al Papa "non c'è, ha spiegato, un Principio Ordinatore assoluto ed uguale per tutti ma tanti e variegati principi ordinatori, influenzabili dalle mode del momento e sensibili ai diversi contesti spazio-temporali in cui si trovano ad operare. Per esempio - ha continuato - quando io vedo la mia gattina che cresce così splendidamente io riconosco in lei un piccolo principio ordinatore al lavoro, ma spero che anche lei riconosca il mio, molto più importante ed evoluto del suo."
Sarebbbe da approfondire questa versione pluralistica ma anche gerarchica del pricnipio ordinatore ma ci sono nuovi argomenti che premono (tipo paradiso e inferno, ad esempio) e sarà difficle riuscire a trattarli tutti martedìì prossimo, quando si concluderà l'anno scolastico e potremo andare in vacanza.
Pietro Spalla

giovedì 29 maggio 2008

EUGENIO SCALFARI risponde al teologo Vito Mancuso


ieri Scalfari ha risposto a Vito Mancuso in merito ad alcune critiche che questi ha fatto al suo libro: "luomo che non credeva in Dio" di recente pubblicazione, ritengo utile riportarla sul blog....


Repubblica — 28 maggio 2008 pagina 54 sezione: CULTURA
.............Dicevo che tra i miei recensori ce n' è stato uno che ha concentrato la sua attenzione critica sugli aspetti filosofici del mio libro. Diciamo sulla mia filosofia. Si chiama Vito Mancuso. Mi ha dedicato un lungo articolo sul Foglio del 18 maggio. E' filosofo e teologo. Ha scritto libri pregevoli, l' ultimo dei quali s' intitola L' anima e il suo destino che ho letto con vivo interesse. E' di cultura cattolica anche se piuttosto eterodossa. Privilegia la ragione sulla fede, ma non al modo di san Tommaso o almeno non soltanto. Usa molto le categorie ontologiche, direi ammodernando un tipo di pensiero che è più vicino ad Anselmo d' Aosta che al grande Aquinate. A lui desidero rispondere non da scrittore ma piuttosto da filosofo a teologo perché questo tipo di confronto mi interessa e spero interessi anche i miei lettori. * * * Mancuso concorda con me su parecchie questioni. Per esempio sul mio modo di intendere la morale come un istinto biologico mirato alla sopravvivenza della specie. E ancora sulla mia visione dell' amore come elemento dominante della vita alla pari con la volontà di potenza. Infine sulla mia ricerca dei «fondamenti» che determinano le forze primarie e vitali. Ma dissente, Vito Mancuso, su alcuni punti essenziali e mi coglie in difetto di coerenza. Anzitutto su Nietzsche. Secondo lui l' autore di Zarathustra ha demolito la Ragione come grembo primordiale del creato, mettendo al suo posto il corpo il «soma», l' irrazionale-istintuale. Scalfari - scrive Mancuso - è intriso di pensiero illuminista e tutte le sue pagine sono un onesto e cauto esercizio di razionalità, ma d' improvviso abbandona Diderot e Voltaire per Nietzsche. Non è incoerenza questa inattesa giustapposizione di due tesi completamente opposte tra loro? Rispondo con una delle frasi che meglio rappresentano il pensiero nietzschiano: «Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante». Nietzsche parlava per aforismi e metafore e questa è una delle più profonde e poetiche tra le tante da lui usate. Egli non pensa l' essere alla maniera di Parmenide e delle religioni induiste. Tanto meno lo pensa come Logos. Per lui il grembo primordiale - se posso usare l' immagine di Mancuso - è il caos, il ribollente informe che sfugge alle categorie del tempo e dello spazio. Il caos non è l' essere ma piuttosto un perenne divenire che erutta forme. La stella è già una forma, dotata d' una sua figura, d' una proporzione tra gli elementi chimici e le forze elettromagnetiche che la compongono; una forma in evoluzione, soggetta a regole e leggi proprie; misurabile sia nello spazio sia nel tempo. Volete conoscere la prima di tali regole? E' l' entropia, la degradazione dell' energia potenziale che si traduce in luce e calore secondo i principi della termodinamica. Il caos non è pensabile dalla ragione. Come il nulla. La stella invece è pensabile, misurabile, degradabile, ha un tempo di nascita e un tempo di morte, soggetto alle leggi imposte dalla sua stessa natura, conoscibile attraverso i processi propri del pensiero razionale. Questa del resto è una visione tipicamente spinoziana e Mancuso ricorderà che Nietzsche riconobbe Spinoza come suo maestro e anticipatore del suo pensiero. L' irrazionalismo nietzschiano coincide con la visione caotica dell' informe originario ma cessa nel momento in cui entrano in scena le forme e le leggi che regolano il loro divenire. In questa concezione non c' è posto per il «logos primordiale». Le religioni monoteiste lo trasmettono ai loro fedeli come verità certa mentre si tratta di una verità di fede. Dal punto di vista della ragione vale appunto come un vento di fede, valida soltanto per chi ne sia vivificato e ne derivi tutte le conseguenze induttive e deduttive. Togliete la fede e l' intera costruzione logica che poggia su quella premessa crolla come un castello di carta. Il suo guaio, caro Mancuso, è di scambiare quel vento di fede per verità di ragione. * * * Ci sono nel suo articolo altri punti di dissenso con me: il tema della libertà, il tema dell' anima (che le sta particolarmente a cuore), quello dell' amore in contraddizione (secondo lei) con la volontà di potenza, quello della Trinità di Dio. Fossi in lei, teologo cristiano e anzi cattolico, starei molto attento a infilarmi in quest' ultimo argomento: lei sa meglio di me a quali dispute ha dato luogo il Dio uno e trino. Dispute da Concilio, votazioni su Dio, scomuniche, scissioni, papi e antipapi, episodi cruenti, quanto di più lontano da una teologia libera e feconda di pensiero e di carità. Il tema della libertà, come lei lo pone attraverso le equazioni tra Io e Mondo, è per me assai poco ricevibile. Se Io è eguale a Mondo (lei dice) il risultato dell' equazione è zero nel senso che non c' è residuo; se invece Io è qualche cosa in più di Mondo, da quella sottrazione resta un x e quell' x è la libertà. Debbo dire che pensare la libertà come un elemento residuale, un sovrappiù dell' Io depurato dalle influenze esterne (Mondo) mi suscita un sentimento di sgradevolezza. Nell' immagine corrente la libertà è una forza potente, una «anima mundi» che pervade la vita di ogni persona e di ogni società. O è questo o non è. La libertà come un residuo mi sembra impensabile ed anche mi sembra impensabile un Io depurato dalle interferenze del Mondo, cioè dalla realtà esterna. Non è lei stesso a sostenere (ed io convengo con lei) che una delle caratteristiche fondative della nostra specie è la socievolezza che lei chiama «legge relazionale»? E dunque se la relazione con gli altri è elemento fondativo della specie come è mai possibile concepire l' Io sottraendolo ad uno dei suoi elementi fondativi? Significherebbe snaturarlo non depurarlo; significherebbe distruggerlo e quindi privare l' equazione da lei formulata di uno dei suoi due elementi. E poi: mi sembra strano che un teologo cattolico concepisca la libertà come un residuo quando tutta la dottrina cattolica indica nel libero arbitrio la pietra angolare della sua costruzione. Qui - mi permetta di dirlo - è lei in contraddizione con la sua Chiesa. Ma torniamo alla libertà. Io ritengo che l' istinto fondamentale di ogni entità vivente sia quello della sopravvivenza cioè della forma di ciascun vivente e della durata della sua organizzazione. Tutto il resto ne deriva. In questa visione la libertà è il modo con cui il soggetto utilizza la realtà esterna e le occasioni che essa gli offre per poter sopravvivere. La libertà comporta il rischio di sbagliare, l' errore di scegliere un' occasione che sembra utile alla sopravvivenza e invece non lo è. Quante specie sono perite anzitempo per aver imboccato strade cieche, prive di evoluzione ulteriore? Quanti individui hanno compromesso la loro felicità e la loro fortuna scegliendo «liberamente» l' occasione negativa anziché quella per loro positiva? Il margine di libertà così concepito è molto piccolo, ma comunque è molto maggiore di quanto non sia quello di altre specie viventi. Noi siamo dotati di mente riflessiva e quindi di capacità comparative, cioè di giudizio. Non solo ci sentiamo soggetti ma aggiungiamo al soggetto il predicato. La nostra libertà ha la sua radice proprio in quel punto, situato nel rapporto tra vivere e pensare, tra soggetto e giudizio. * * * Concluderò parlando dell' amore, un tema che mi è molto caro in tutte le sue declinazioni. L' amore, come tutti gli altri nostri sentimenti, deriva dall' istinto di sopravvivenza. C' è l' amore di sé e l' amore per l' altro. Gli animali non hanno questa duplice declinazione; non avendo una mente adeguata a costruire l' Io agiscono soltanto per sopravvivere. Per noi umani è diverso: noi amiamo noi stessi ma amiamo anche gli altri la cui esistenza è necessaria alla nostra sopravvivenza. Di qui nascono la morale e l' egoismo come istinti separati ma alimentati entrambi da quello della sopravvivenza. Non ci sono in questa visione atti morali che possano danneggiare la specie, come lei caro Mancuso sostiene. Intendo: che possano danneggiare l' umanità della specie. Ci possono invece essere e purtroppo ci sono atti egoistici che possono danneggiare l' umanità della specie. L' istinto morale interviene a correggerli, alle volte ci riesce, altre volte no. La nostra vita è fornita di due pedali come una macchina che abbia un acceleratore ed un freno. Tra le tante buone letture in materia, consiglio le massime di La Rochefoucauld: fu un uomo per tanti aspetti detestabile ma aveva un cervello e capacità di giudizio fuori dal comune. Se per caso non le avesse lette le legga ora, caro Mancuso: imparerà o si rinfrescherà con molte cose che la teologia non include nel suo sapere. Non ho bisogno di ripetere che apprezzo molto i suoi scritti. Del resto non avrei dedicato tanto spazio a contestarne alcuni aspetti. - EUGENIO SCALFARI