venerdì 16 maggio 2008

La filosofia come cura

ricevo da Augusto e con piacere pubblico
La 'filosofia-in-pratica' NON è una terapia. Può essere però una forma di 'cura' verso di sé e verso gli altri, filosofi o non-filosofi di mestiere?
Sabato 17 maggio alle ore 21,30 Augusto Cavadi ne discuterà presso il Parco letterario "Tomasi di Lampedusa"(Vicolo della Neve, alle spalle di piazza Marina in direzione di via Alloro) con Moreno Montanari (Ancona) autore del recente volume LA FILOSOFIA COME CURA (Unicopli, Milano 2007).
Augusto Cavadi 091.6377018 338.4907853 www.augustocavadi.eu

2 commenti:

alberto.spatola ha detto...

Sicuramente la filosofia , con la consapevolezza che comporta, non può che migliorare le condizioni psicologiche delle persone. E' un farmaco senza effetti collaterali , da prendere con giudizio e generosamente. Suggerisco la lettura di un buon testo filosofico al mese, possibilmente un classico che favorisca l'attività contemplativa, e contribuisca ad un sano rilassamento neuromotorio. Eviterei i testi ottocenteschi che invitano alla lotta di casse. Meglio gli esistenzialisti, oppure il grande Heidegger , benissimo Gadamer ( vedi l'ottimo: " Dove si nasconde la salute" ). Il meglio del benessere lo si raggiunge con i dialoghi platonici, mentre chi vuole addottorarsi un pò di più si butti a capofitto nella Metafisica di Aristotele, (non è una passeggiata e c'è da studiare !)
o anche nell'ottima Etica a Nicomaco ( svilupperete una concezione sia aristocratica che solidaristica del bene comune e sociale )
Consiglierei Nietzsche,infine ,per i più trasgressivi o anche per chi
è troppo prigioniero del SuperIo ed ha bisogno di svegliarsi un pò. Non se ne pentirà !!!.

intimisto ha detto...

Il peso più grande (di Elisabetta Brizio)

Tempo fa parlavo via mail con l’autore di La filosofia come cura. Percorsi di autenticità. Moreno Montanari diceva che lo scopo che si era imposto con la stesura di questo libro era quello di “suscitare nel lettore una rimessa in discussione del proprio modo di essere al mondo e non soltanto di concepirsi e di concepirlo, fornirgli ampi spunti di riflessione senza risparmiargli la sofferenza ma offrendogli prospettive di rinascita, non consolatorie, ma tutte da conquistare mettendosi in gioco e dandosi da fare, a partire da uno sguardo onesto e veritiero su noi stessi. Su tutto - diceva Montanari - si può lavorare: il lavoro costa fatica, specie frustrazione per l’ego, ma alla fine paga, anche se il capolavoro riesce a pochi… Speravo di fare un libro specchio nel quale chiunque potesse specchiarsi e vedersi in modo diverso e volevo condividere con il lettore il senso dei libri degli autori citati”. E mi pare che Montanari abbia più che esaustivamente raggiunto il proprio obiettivo e realizzato quelle aspirazioni che più o meno intenzionalmente accompagnano o si sovrappongono al momento pre-testuale.
La filosofia come cura è infatti un libro forte e intenso, che fin dalle prime pagine - e sempre in maniera più incalzante man mano che andiamo avanti nella lettura - ci mette alle strette senza darci tregua, ci risveglia dalla assuefazione ai nostri consueti mascheramenti e ci costringe a prendere atto della problematicità della nostra vita, a ripensarne il senso e lo scopo e soprattutto a quanto di essa abbiamo rinunciato a vivere. E’ un libro vero, autentico, uno di quelli che finiscono per modificare il nostro modo di vedere la vita che ci avanza, tale che d’ora in poi in un certo senso non potremo prescinderne. Il cui spessore è ulteriormente accresciuto dalla vastità ed eterogeneità delle citazioni - che vanno dalla filosofia all’antropologia, dalla psicologia alla letteratura, e altro ancora - che conferiscono alle argomentazioni non tanto una legittimazione quanto una maggiore profondità. Questa tendenza a dare la parola agli autori che più o meno lo hanno ispirato e insieme ai quali Montanari sembra dialogare anche attraverso una incolmabile distanza temporale dà al lettore l’impressione di un libro fortemente sentito che rivela una sottesa esperienza autentica.
Ognuno di noi, dopo la lettura di queste pagine, non può più fare a meno di interrogarsi e di sondare un po’ leopardianamente se stesso, dal momento che - o sano (ma chi poi lo è veramente?) o malato o solo psicologicamente instabile - deve fare i conti con quello che è o crede di essere e di essere stato al mondo, deve in altre parole cercare di spiegarsi e di decodificare i propri abusati atteggiamenti, dismettendo di fronte a se stesso quella maschera che - seppure inconsapevolmente - si è costruito negli anni. La presunta “normalità”, il trauma abbandonico, il disagio così diffusamente avvertito, quella persistente sensazione di inadeguatezza, l’esperienza della morte, la stessa percezione della morte nella vita (le cosiddette cose che non sono più), l’avvertire costantemente che vivere è assistere a un avvicendarsi di altri sé che soppiantano il nostro io che presumevamo attuale, percepito ora come defunto, sono tutti stati che rientrano nel discorso di Montanari - che rifugge ogni ottimistica illusione e ogni facile soluzione consolatoria - o che perlomeno tale discorso inevitabilmente evoca in noi, con esiti differenti e reazioni del tutto imprevedibili.
Intanto particolarmente significativa sembrerebbe la sottolineatura di quella infausta confusione - o voluta o fortuita - che talvolta si verifica nella valutazione e nella relativa ripartizione tra veri pazienti, che necessitano di una medicalizzazione, e pazienti presunti o indotti - cioè di quelli che accusano unicamente qualche disagio - con il conseguente e irreparabile danno per i secondi, che spesso vengono spinti ad assumere farmaci fino all’insorgenza di uno stato-dipendenza poi difficilissimo da superare. E dolorosa ma necessaria, inoltre, è la sua descrizione di quella diffusissima tendenza all’evitamento delle situazioni “a rischio”, a delegare a figure tutelari attraverso l’esibizione di alibi assurdi, con tutte le ripercussioni del caso: senso di frustrazione, scarsa autostima, progressivo restringimento delle iniziative, rinuncia a vivere in maniera più ampia, avvertire come insormontabili ostacoli di fatto inesistenti. Non a caso la lettura di questo libro all’inizio potrebbe perturbare il lettore fino a farlo dubitare sulla qualità salvifica della chance insita nell’angoscia, stato, quest’ultimo, che in un primo momento potrebbe essere percepito non tanto come opportunità per compiere una conoscenza più approfondita e autentica di sé, quanto come il termine o l’attuazione della stessa esistenza. Ma Montanari va oltre e ci invita ad attraversare la fase dell’angoscia e di viverla come chance o percorso privilegiato verso l’autenticità o la redenzione. Egli scrive: “dunque il vuoto, come la sofferenza (…), non ostacola il nostro compito ma anzi coopera alla sua realizzazione; pertanto non ha senso rifuggirlo, riempiendolo compulsivamente o annichilendolo, occorre semmai imparare a concepirlo come uno spazio di cui prendersi cura per coltivare e costruire la nostra eudamonia, ovvero quella forma di felicità che, a differenza del desiderio, non è data dalla ricerca o dal raggiungimento di ciò che non si ha, ma consiste nel saper vivere in armonia con le proprie potenzialità” (p. 44).
Capire e soprattutto diventare autenticamente ciò che si è equivale soprattutto a comprendere e lavorare in maniera incessante sul perché e sul che cosa tendiamo a fuggire e ad evitare: il negativo della vita, che è ineludibile e con il quale ognuno di noi deve inevitabilmente confrontarsi. “La fatica di essere se stessi”, consiste infatti nel liberarsi - evitando di aggirarlo, che sarebbe come dire assolutizzarlo - da questo pericolo del negativo che sembrerebbe opprimere e inibire la nostra vita e confinarci in uno stato di ossimori permanenti, di indecisione perpetua e, alla fine, di rassegnata rinuncia alla vita stessa. “Il peso più grande” è indubbiamente uno dei capitoli più profondi del libro, anche per quella nietzschiana concezione del tempo che vuole eludere ogni frattura nel succedersi del tempo e quella rinnovata visione di un passato come premessa al presente e al nostro futuro piuttosto che come esperienza defunta o idealizzato oggetto di rimpianto. Scrive Montanari: “siamo l’esito di quanto abbiamo vissuto, siamo ciò che ci è accaduto e il modo in cui l’abbiamo elaborato” (p. 81). E’ questo il peso più grande, redimere esperienze traumatiche che tendenzialmente cerchiamo di rimuovere ma che poi ritorneranno puntualmente a condizionare in modo negativo il nostro stato attuale; vivere il tempo come Kairós in armonica continuità con il passato e non come chrónos, circostanza, quest’ultima, che non farebbe che sancire la nostra frustrazione per l’esperienza irrimediabilmente perduta. Perdonare il passato e perdonarsi, “accettare l’irreversibilità del tempo che passa, ma non sparisce” (p. 78) in una “prospettiva unitaria del tempo”, dove “il passato, indipendentemente dalle pieghe che ha assunto, può essere vissuto come punto di partenza e fondamento delle possibilità a venire, ed il futuro come la dimensione che ci renderà possibile conservare o mutare, nel suo significato e nella sua direzionalità, il passato” (p. 79).
Nessuno - ci avverte Montanari - potrà mai fare nulla di tutto questo al posto nostro, come anche rinunciare finalmente ad accanirsi nel cercare un senso nel mondo e metterci piuttosto nella prospettiva di portarcelo noi, in una disposizione di apertura all’altro, che appare quanto mai imprescindibile per evitare di cadere nelle forme del solipsismo o della autoreferenzialità, tragiche anomalie per il soggetto, e, di conseguenza, per il mondo.
Ma è nell’ultimo capitolo che l’autore si spinge - e noi con lui - fino all’estremo: imparare a vivere è saper accettare l’idea della morte nella vita, un’idea della morte che si configura non solo nei termini di estinzione fisica. Scrive in proposito Montanari: “se utilizzeremo la vita per prepararci alla morte questa ci renderà il favore preparandoci alla vita già adesso, per non apprezzarla solo quando ormai è troppo tardi” (p. 114). Pertanto dobbiamo esercitarci a trasporre la filosofia in questo aspetto della vita (che è tutt’altro che marginale, e, al contrario decisivo) e non, viceversa, fare della nostra vita un lungo e ingannevole esercizio di rimozione della morte.
La filosofia come cura è un testo fondamentale, anche rispetto ad altre trattazioni notevoli e pur interessantissime, che ci svelano il nostro modo corretto o - come il più delle volte accade - sbagliato di rapportarci alle cose, come per esempio all’arte. Ma qui il lettore avverte subito che si sta parlando d’altro, di qualcosa di veramente essenziale - come indicato dal sottotitolo -, cioè di come affrontare la nostra vita, che è una, e di come averne cura. Di come imparare ad appartenerci, o, in altre parole, ad afferrare il senso dell’unicità della nostra vita. E’ un libro che andrebbe consigliato soprattutto alle giovani generazioni anche nell’eventualità di evitare quelle rovinose conseguenze di una medicalizzazione che non era, per l’appunto, indicata.