Caro Pietro e amici tutti,
vi ringrazio per l'aver preso in considerazione la mia breve analisi delle Operette.
Mi permetto di ribadire l'invito a leggere Leopardi nella sua profondità teoretica e non mediante un gossip storico che -alla fine- impedisce secondo me di comprenderlo.
Provate a leggerlo facendo lo sforzo di dimenticare tutto quello che sapete sulla sua vita, come se fosse un autore del tutto sconosciuto...
A motivare un invito così drastico c'è anche una clamorosa controprova e cioè Arthur Schopenhauer. Questo filosofo contemporaneo di Leopardi (1788-1860) era ricco, bello, un morettino che aveva un grande successo con le donne (non si sposò mai ed ebbe delle amanti da sballo) e -a partire dal 1848- conosciutissimo e ammirato in tutta Europa.
Eppure le affinità fra di lui e il nostro Giacomo sono grandissime. Schopenhauer critica in modo feroce e geniale ogni forma di idealismo metafisico, ottimismo antropologico, razionalismo gnoseologico, salvezza religiosa (e cristiana in particolare).
Contro Rousseau reputa che l'uomo sia naturalmente crudele e si unisca agli altri solo per bisogno, che il vero inferno sia questo nostro mondo che è il peggiore dei mondi possibili tanto che se lo fosse un po' di più sparirebbe proprio.
Contro ogni storicismo sostiene che la storia sia priva di senso e di scopi, che la cosa migliore ci sia preclusa perché consiste nel non essere mai nati. E rifiuta il suicidio anche perché vi vede un estremo atto d'amore verso la vita...
Tutto questo è pensato da un uomo a cui non mancava nulla. Come la mettiamo con lo stantio e banale luogo comune che affligge Leopardi fin dalle aule scolastiche? :-))
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10 commenti:
Schop. era verosimilmente un depresso ("endogeno" diciamo noi psichiatri) il cui padre morì suicida ( e ciò avvalora l'ipotesi della depressione ). Vedi anche il libro sul mal di vivere e la depressione di Georges Minois , Dedalo editore (Storia del mal di vivere). Con questo non voglio psichiatrizzare la storia della filosofia o della letteratura ( Leopardi) , ma semmai indicare ,anche , tra le ragioni della produzione artistica e scientifica , la sofferenza umana.
P.S.: Si potrebbe obbiettare che è la visione filosofica primigenia, a determinare il pessimismo , la malinconia, et similia. Personalmente ritengo che vita e riflessione sulla vita , biologia e psicologia ,si rinforzino a vicenda in un intreccio inestricabile. E' difficile tuttavia pensare che la storia di vita , storia anche biologica oltrechè psicologica , non abbia influenza sulle produzioni artistiche o scientifiche. Sia pur indirettamente a volte.
La sofferenza umana è talmente costante e pervasiva da intridere di sé ogni azione e comportamento.
Tutti soffrono ma pochi creano.
Patologizzare (depressione, anamnesi familiari o altro...) le idee, i teoremi, le forme estetiche è secondo me un gesto sterile che non fornisce il minimo contributo alla comprensione della cultura e delle sue espressioni.
Leggo solo ora il p.s.
Sono d’accordo sull’intreccio di teoresi e biologia ma questo è un dato fondamentale e di base. Condivido anche la tensione che le menti creative e oneste hanno verso la unitarietà di vita e conoscenza, pensiero ed esistenza.
Per il resto, ha ragione Jaspers (che fu anche psichiatra oltre che filosofo) quando afferma che «un’opera deve essere valutata esclusivamente sulla base del suo contenuto spirituale: la causalità sotto il cui influsso qualcosa è creato, non dice nulla sul valore della creazione stessa».
(Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, 1996, pag. 104).
Non è in discussione il valore artistico o scientifico di un opera quando ci si interroga sulle radici profonde che ne hanno permesso l'espressione. Su questo Jaspers ha ragione. Peraltro distinguerei le produzioni artistiche , da quelle "scientifiche " e anche da quelle filosofiche. "L'urlo" disperato e celeberrimo rappresentato da Munch e tante altre sue opere che esprimono magnificamente l'angoscia, hanno a che fare con la sua angoscia personale ed esistenziale (fu anche ricoverato alcune volte in casa di cura)e sono in relazione con la sua produzione. Ciò non toglie valore ai suoi quadri,che conservano tutto il loro valore, ma aiuta a capire , per mezzo della sua personale vicenda dolorosa, anche la portata dell'angoscia umana. Non è sterile dunque interrogarsi sulla particolare "curvatura" biologica e patoplastica che spesso sottende ogni produzione artistica. Vedi anche Van Gogh. Seneca scrisse 2 milleni fa che non c'è genio senza follia. Quindi la "follia" è interessantissima da studiare per capire l'umano. Rimando ai fecondi studi di Borgna (ma anche a Galimberti ) editi Feltrinelli per capire quanto sia feconda la follia per la creatività umana. Anzi , forse si può dire , che l'uomo "folle" è in una sorta di avamposto particolare che gli permette di intuire verità non comuni ai più , spesso addormentati dall'ovvietà e dalle banalità del vivere stesso.
P.S :L'accostamento della follia ad alcune prodigiose creazioni dello spirito ,non è che diminuisca il pregio delle produzioni stesse , ma accresce l'interesse verso i "disturbi" della mente, quale fonte, a volte, di produzioni felici. Innumerevoli sono gli esempi e non li cito. Alcune volte tuttavia tali "disturbi" non aiutano la creazione ,ma la ostacolano. Ad esempio lo stato "terminale" di Nietzsche (forse affetto da neurolue )lo portò alla demenza. Prima tuttavia di tale stato Nietzsche scrisse cose meravigliose, forse , secondo alcuni , anche per l'effetto di una certa espansività maniacale, oltrechè geniale.
Perchè patologizzare tutto ciò che non è noia?
"Patologizzare" è un neologismo (un pò bruttino per la verità) che evidentemente deriva da patologia. "Patologia" ha nel tema verbale "pathos" la sua origine evidente e quest'ultimo termine significa "sofferenza " . Ma "pathos" non è lontano nemmeno dal " pati" latino, da cui deriva oltre che patire e soffrire , anche la "passio" , la passione. In buona sostanza c'è una parentela ed una radice comune tra passione e sofferenza. Se così è dare un'occhiata alle "passioni" della mente dei grandi uomini , oltrechè dei piccoli, è estremamente interessante. Almeno per me. Non spiega tutto, ci mancherebbe, ma aiuta a capire. Forse qualcuno preferisce pensare che le "passioni" di un Leopardi o di un Nietzsche non siano umane; a mio avviso lo sono e ciò li rende anche più vicini a noi e in qualche modo più comprensibili.
Ringrazio Alberto Spatola per le delucidazioni sull'etimo. Forse sarebbe il caso di ricordare anche il significato dato al termine pathos in altre fonti, pure accredidate del mondo greco, ove assume il senso di pena, patimento, miseria, danno, sciagura, disgrazia (Antifonte, Erodoto), per non parlare di Aristotele e Diogene Laerzio che lo usano col significato di mali e malattie corporee (Cifr.Lorenzo Rocci, Vocabolario Greco Italiano,Soc. Ed.Dante Alighieri, 2002, pagg.1386-1387). Si, perchè qualunque essere umano si trovi a "soffrire" in un qualche modo nosograficamente inquadrabile, non credo che venga accolto con sorriso, empatia, stima ed ammirazione per il suo "travaglio interiore" in un servizio medico, e quindi che di occupa di patologia, dove va a chiedere aiuto.
Io credo che parlare di sofferenza non vuol dire "per forza" parlare di patologia nel significato appena esposto dell'etimo. Pathos per altro significa anche "quello che si prova di bene o male nel fisico e nell'animo" oppure "esperienza, prova" ed Eschilo che ricorda nell'Orestea il pathei mathos (apprendere attraverso la sofferenza)), mi ricorda maggiormente "L'apprendere dall'esperienza di Bion" oppure l'impianto teorico di Winnicott, se per forza dobbiamo parlare da psichiatri.
Sia Bion che Winnicott, reputano la "capacità di tollerare la sofferenza", presupposto basilare ad uno sviluppo sano della personalità, ove nel termine "sano" è implicita la capacità di sviluppare il potenziale creativo individuale ed individualizzante.
Prendendo spunto a quanto detto su Leopardi e Schopenhauer,non capisco allora perchè parlare di depressione endogena, esogena, ciclotimia, ipomania, psicosi, psicodislettici(l'elenco potrebbe non terminare mai), a posteriori, per gente che non ha mai dato, in vita, alcun disturbo ad alcun servizio o operatore psichiatrico del tempo, ma ha avuto il solo torto di guardare in faccia la sofferenza della realtà e della verità e, mediante questo, sviluppare il proprio potenziale creativo.
Visto che il nostro "spirito del tempo", non tratta,poi, tanto bene i disturbi psichiatrici e chi ne è affetto, la lettura mi sembra ingiusta, oltre che non corretta alla base, nè mi sembra corretta una facile assimilazione tra genio e follia.
Ma! L'argomento è interessante ,però
forse la prosecuzione ci porterebbe molto fuori tema rispetto a Leopardi. Certo però l'accostamento tra capacità artistica o comunque creativa e "passioni " dell'anima è estremamente interessante (almeno per me e qualche altro )e da tempo
immemore oggetto di studi.
Sono d'accordo con chi come Biuso sostiene che lo studio di
una creazione artistica o scientifica lo si fa entrando nel merito dell'opera.Nulla vieta,tuttavia,che ci sia anche chi abbia voglia di sbizzarrirsi nello studio del contesto. Vuoi che esso sia rappresentato dallo "spirito del tempo", dai luoghi, dalle circostanze ,dai "malanni "
dell'autore etc. Testo e contesto insomma , insieme o separatamente possono essere oggetto di analisi.
Dando la giusta importanza al testo , senza trascurare il contesto.
Se poi , chi interpreta a posteriori , usa termini o categorie interpretative non conosciute o presenti al tempo della redazione dell'opera , ciò non vuol dire che tali categorie o termini non possano rivelarsi utili alla comprensione del testo o del contesto o di entrambi.
Valga l'esempio di tante scoperte scientifiche che, ad esempio , si sono fatte a posteriori grazie all'acquisizione di nuove cognizioni. Nulla vieta pertanto che, ad esempio la Psicanalisi nei suoi vari epigoni, si sbizzarrisca nell'interpretare a dx e a manca , a torto e a ragione , intorno ad un autore ed alla sua opera. E nulla vieta che anche categorie "cliniche" , a proposito o a sproposito , vengano usate per tentare di connotare gli aspetti contestuali di un'opera.
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