La traduzione è mia.
Mind of a Rock
Jim Holt, NYT 18-11-07
La maggior parte di noi non ha dubbi che i nostri simili siano coscienti; siamo anche abbastanza sicuri che molti animali abbiano una coscienza; alcuni, come le grandi scimmie anche l’autocoscienza, la consapevolezza di sé; altri, come cani, gatti, maiali forse mancano di un sé, ma certo sperimentano stati interiori di dolore e piacere. Di creature più piccole, come i moscerini non siamo più così sicuri; non abbiamo alcuna remora quando li uccidiamo. Per quanto riguarda le piante, ovviamente non hanno una mente, eccetto che nelle favole. E così gli oggetti non viventi, come le tavole o le rocce.
Tutto questo è semplice buon senso. Ma non sempre il buon senso è una guida affidabile alla scoperta del mondo. E la parte del mondo che è più recalcitrante alle nostre esplorazioni al momento è proprio la coscienza. Come è possibile che i processi elettrochimici nell’agglomerato di materia grigia che costituisce il nostro cervello diano luogo – o ancora più miteriosamente, siano – l’abbagliante messa in scena della coscienza, con i suoi trasporti di gioia, le sue trafitture d’angoscia, i suoi allunghi di mediocre appagamento misto a noia? E’ questa l’ultima frontiera della scienza, che assorbe le energie di una comunità mondiale di scienziati della mente, psicologi, filosofi, informatici eccetera.
Il problema della coscienza si è rivelato così impervio che alcuni di questi pensatori si sono risolti a un’ipotesi che suona disperata se non completamente folle. Forse, dicono, la mente non si limita ai cervelli di alcuni animali. Forse essa è ubiqua, presente in ogni briciolo di materia, su fino alle galassie, giù fino agli elettroni e ai neutrini, senza trascurare entità intermedie come un bicchiere d’acqua o una pianta in vaso. Per di più, essa non è venuta fuori di colpo quando certe particelle fisiche su un certo pianeta ebbero l’opportunità di acquisire la giusta configurazione; invece, vi sarebbe stata coscienza fin dall’inizio dei tempi.
La dottrina che il nocciolo del mondo sia la mente prende il nome di panpsichismo. Pochi decenni or sono, il filosofo Thomas Nagel ha dimostrato che esso è l’inevitabile conseguenza di alcune premesse che suonano molto ragionevoli. Per prima cosa, il nostro cervello consiste di particelle di materia. Secondo, queste particelle, in certi arrangiamenti, producono pensieri e sensazioni soggettive. Terzo, le proprietà fisiche da sé sole non possono spiegare la soggettività (nessuna equazione della fisica può spiegare l’ineffabile esperienza di gustare una fragola). Ora, ragiona Nagel, le proprietà di un sistema complesso come il cervello non vengono fuori dal nulla; esse devono derivare dalle proprietà dei costituenti basilari del sistema stesso. I quali devono avere essi stessi proprietà soggettive – le quali, nella giusta combinazione, contribuiscono ai nostri intimi pensieri e sensazioni. Ma gli elettroni, protoni e netroni che formano i nostri cervelli non sono differenti da quelli che formano il resto del mondo. Ne deriva che l’intero universo consiste di particelle di coscienza, per così dire.
Nagel non arrivò ad abbracciare il panpsichismo. Ma oggi il concetto sta incontrando una certa moda. Il filosofo australiano David Chalmers e il fisico di Oxford Roger Penrose hanno parlato in sua difesa. Nel suo recente libro “Consciousness and Its Place in Nature”, il filosofo britannico Galen Strawson difende il panpsichismo contro numerosi critici. Come possono, si meraviglia lo scettico, minuscoli granelli di polvere mentale (mind dust), con i loro stati psichici presumibilmente molto semplici, combinarsi e formare quella sorta di complicata esperienza propria di noi umani? Dopo tutto, se metti diverse persone nella stessa stanza, le loro menti individuali non vanno a formare una mente collettiva (o invece si?). Resta il fatto spiacevole che non si possono testare le capacità mentali della luna, per esempio (ma vale lo stesso per la gente – come si può realmente provare che il collega d’ufficio non è un robot incosciente?). Rimane l’irrimediabile stranezza dell’idea di un protone con proto-emozioni, proto-credenze e proto-desideri. A cosa potrebbe somigliare il desiderio di un protone? “forse vorrebbe diventare un quark’ chiosa il solito scettico impertinente.
Il panpsichismo resta più facile comunque da parodiare che da refutare. Anche se si rivelasse un vicolo cieco nella ricerca sulla coscienza, potrebbe per altri versi aiutarci a uscire da un certo provincialismo nel modo in cui guardiamo al cosmo. Siamo esseri biologici. Esistiamo in ragione di composti chimici che si replicano. Recepiamo informazione dal nostro ambiente, e la elaboriamo in modo che i processi auto-replicanti continuino. Come sottoprodotto di tutto ciò, abbiamo sviluppato un cervello che, con appassionata convinzione, riteniamo la cosa più complicata dell’universo. E guardiamo con sussiego la materia bruta.
Prendi la roccia qua sopra (foto di Hansel Adams). Non sembra cha si dia da fare granché, almeno a un’impressione superficiale. Ma a livello micro essa consiste di un numero inimmaginabile di atomi connessi da flessibili legami chimici, tutto in vibrazione a velocità che i nostri supercomputer si sognano. E non vibrano a casaccio. La roccia ‘vede’ l’intero universo tramite la gravitazione e i segnali elettromagnetici che riceve continuamente. Questo sistema può essere considerato un processore di informazione per utti gli usi, la cui dinamica interna rispecchia qualsiasi sequenza di stati mentali che il nostro cervello attraversa. E dove c’è informazione, dice il convinto panpsichista, c’è coscienza. Secondo lo slogan di Chalmers: “L’esperienza è informazione dall’interno; la fisica è informazione dall’esterno”.
Ma la roccia non si esperisce come risultato di tutto questo ‘pensare’. Perché dovrebbe? La sua esistenza, a differenza della nostra, non dipende dalla lotta per la sopravvivenza e la riproduzione. Essa è indifferente alla prospettiva di essere polverizzata. Se siete inclini alla poesia, potreste pensare che la roccia è un essere puramente contemplativo. E potreste trarne la morale che l’universo è, ed è sempre stato, saturo di mente, anche se noi tardivi snob replicanti darwiniani siamo troppo ottusi per capirlo.